Ricorso  della  Regione   Veneto   (c.f.   80007580279   e   p.i.
02392630279), in persona del  Presidente  pro  tempore  della  Giunta
regionale, autorizzato mediante deliberazione della Giunta stessa del
7 maggio 2012, n.  773,  rappresentata  e  difesa,  come  da  procura
speciale a margine  del  presente  atto,  dagli  avv.ti  prof.  Mario
Bertolissi  del  Foro  di   Padova   (c.f.   BRTMRA48T28L483I,   pec:
mario.bertolissi@ordineavvocatipadova.it), Ezio Zanon dell'Avvocatura
regionale  (c.f.  ZNNZEI57L07B563K,  pec:  ezio.zanon@coavenezia.it),
Daniela   Palumbo   della   Direzione   Affari   legislativi    (c.f.
PLMDNL57D69A266Q)  e   Luigi   Manzi   del   Foro   di   Roma   (c.f.
MNZLGU34E15H501Y), presso quest'ultimo domiciliata in Roma, alla  via
Federico Confalonieri, n. 5; 
    Contro il Presidente del  Consiglio  dei  Ministri  pro  tempore,
rappresentato e difeso dall'Avvocatura Generale dello  Stato,  presso
la quale e' domiciliato ex lege, in Roma, alla via dei Portoghesi, n.
12,  per  la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  degli
articoli: 1, comma 4; 25, comma 1, lett. a); 35, comma 8, 9, 10,  13;
36, comma 1, lett. a); 66, comma 9, decreto-legge 24 gennaio 2012, n.
1, recante «Disposizioni urgenti  per  la  concorrenza,  lo  sviluppo
delle infrastrutture e la  competitivita')»,  cosi'  come  risultanti
dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n. 27, in Suppl.  ordinario
n. 53 alla Gazz. Uff., 24 marzo 2012, n.  71;  per  violazione  degli
artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 114, 117, 118, 119,  120  Cost.,  nonche'
del principio di leale collaborazione di cui  agli  artt.  5  e  120,
comma 2, Cost., dell'art. 9, comma 2, della legge  costituzionale  n.
3/2001 e dei parametri interposti di cui alla legge 5 maggio 2009, n.
42 e al d.lgs. n. 85/2010; 
 
                              F a t t o 
 
    In  data  24  gennaio  2012  veniva  pubblicato  nella   Gazzetta
Ufficiale n. 19, S.O. n. 18, il decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1,
meglio conosciuto come  «decreto  Monti»,  relativo  alle  cosiddette
«liberalizzazioni». 
    Nell'ambito del citato provvedimento normativo, la Regione Veneto
individuava alcune disposizioni (segnatamente  i  commi  8,  9  e  10
dell'art.  35)  lesive  di  proprie  prerogative   costituzionalmente
sancite e tutelate, nonche' numerosi  profili  di  contrasto  con  il
dettato  costituzionale,  che  ridondavano  in  altrettante   lesioni
dell'autonomia regionale e degli enti locali, Province e Comuni. 
    Per questo, promuoveva avanti codesta Ecc.ma Corte un giudizio di
legittimita'  costituzionale  in  via  principale,  con   contestuale
istanza di misura cautelare, inserito al ruolo con il n. 60/2012. 
    In  pendenza  del  citato  giudizio,  il   Parlamento   nazionale
interveniva,  convertendo,  con   modificazioni,   il   summenzionato
decreto-legge, con legge 24 marzo 2012, n. 27. 
    Il  complesso  delle  disposizioni  normative  risultante   dalla
conversione in  legge  non  e'  immune  da  censure  di  legittimita'
costituzionale. Tali doglianze la Regione  Veneto  solleva,  mediante
l'odierno ricorso, con riferimento ai seguenti profili di 
 
                            D i r i t t o 
 
    1. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 1, comma  4,  del
decreto-legge n.  1/2012,  cosi'  come  risultante  a  seguito  della
conversione in legge n. 27/2012. 
    La Regione lamenta,  anzitutto,  l'illegittimita'  costituzionale
dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1,  cosi'
come risultante a seguito della conversione in legge 24  marzo  2012,
n. 27. 
    Questo il testo del disposto impugnato: «I Comuni,  le  Province,
le Citta' metropolitane e le Regioni si adeguano ai principi  e  alle
regole di cui ai commi 1, 2 e 3 entro  il  31  dicembre  2012,  fermi
restando i poteri sostituitivi dello Stato ai sensi dell'articolo 120
della  Costituzione.  A  decorrere  dall'anno   2013,   il   predetto
adeguamento costituisce elemento  di  valutazione  della  virtuosita'
degli  stessi  enti  ai  sensi  dell'articolo  20,   comma   3,   del
decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98,  convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 15 luglio 2011, n. 111. A  tal  fine  la  Presidenza  del
Consiglio dei Ministri, nell'ambito dei compiti di  cui  all'articolo
4, comunica, entro il termine perentorio del 31  gennaio  di  ciascun
anno, al Ministero dell'economia e delle finanze gli enti  che  hanno
provveduto all'applicazione delle  procedure  previste  dal  presente
articolo. In caso di mancata comunicazione entro il termine di cui al
periodo precedente, si prescinde dal predetto elemento di valutazione
della virtuosita'. Le Regioni  a  statuto  speciale  e  le  Provincie
autonome di Trento e Bolzano  procedono  all'adeguamento  secondo  le
previsioni dei rispettivi statuti». 
    La disposizione di cui all'art. 1, comma  4,  impone  a  Regioni,
Province, Comuni, Citta' metropolitane di adeguarsi  ai  principi  di
cui ai primi tre commi del medesimo  articolo  e  stabilisce  che  la
conformita'  ad  essi  costituisca  «elemento  di  valutazione  della
virtuosita' degli enti» stessi. Spettera', poi, alla  Presidenza  del
Consiglio dei Ministri comunicare al Ministero dell'Economia e  delle
Finanze l'elenco degli enti che abbiano  provveduto  all'applicazione
delle procedure di legge; in  caso  di  mancato  invio  della  citata
lista, si prescindera' dalla valutazione di virtuosita'  rispetto  al
parametro fissato nella norma. 
    1.1 La previsione impugnata e' illegittima, in  primo  luogo,  in
relazione all'obbligo dettato per le Regioni. 
    Anzitutto deve chiarirsi l'ambito di afferenza  della  disciplina
censurata. 
    Quanto, nello specifico, all'impugnato quarto comma, esso  sembra
riguardare il «coordinamento della finanza pubblica», dal momento che
pone per gli enti territoriali  un  obbligo  al  cui  adempimento  si
ricollegano importanti conseguenze circa la cogenza  degli  obiettivi
di finanza pubblica e la  determinazione  della  contribuzione  degli
enti stessi  alla  manovra  annuale.  Esso,  pero',  non  puo'  dirsi
legittimo rispetto a quest'ambito, in quanto contiene  previsioni  di
dettaglio ed auto  applicative,  che  vanno  ben  oltre  la  potesta'
sull'individuazione dei principi  fondamentali  della  disciplina  ai
sensi dell'art. 117, comma 3, Cost. 
    Tuttavia, non e' questo l'unico ambito competenziale  interessato
dalla disciplina e cio' appare immediatamente se  solo  si  mette  il
comma impugnato in relazione con le  disposizioni  normative  che  lo
precedono e a cui esso espressamente si ricollega. 
    Il senso della disciplina  complessiva,  infatti,  e'  quello  di
imporre alle Regioni di adottare interventi normativi (abrogazioni) o
comportamenti  (interpretativi  e  applicativi)  negli  ambiti   piu'
disparati,  alcuni  di   certa   competenza   legislativa   regionale
concorrenziale (come il «governo del territorio») altri  di  potesta'
esclusiva (come ad esempio  il  «commercio»);  dunque,  negli  ambiti
materiali di cui all'art. 117, comma 3 e 4, Cost. 
    La disciplina di asserito  principio,  contenuta  nei  primi  tre
commi dell'art. 1, quella che dovrebbe fungere da «faro»  illuminante
l'operato della Regione, e', poi, posta in presunta  «attuazione  del
principio di liberta' di iniziativa economica  sancito  dall'articolo
41 della Costituzione e del  principio  di  concorrenza  sancito  dal
Trattato dell'Unione europea». Questi ultimi,  dunque,  sembrerebbero
essere,  al  fine,  secondo  il   legislatore   statale,   i   titoli
legittimanti l'intervento  de  quo  anche  eventualmente  in  spregio
dell'autonomia legislativa regionale. 
    Il punto merita qualche considerazioni piu' approfondita, anche e
soprattutto  in  ragione  del  fatto  che  molto  complesso  -   come
illustrato - e', in realta', il panorama delle competenze legislative
regionali incise dalla disposizione impugnata. 
    La  Corte  costituzionale  ha  gia'  chiarito,  fin  dalle   piu'
risalenti pronunce sull'art. 41 Cost., che esso tutela  la  «liberta'
di concorrenza» quale  «manifestazione  della  liberta'  d'iniziativa
economica privata... (sentenze n. 46 del 1963 e n. 97 del 1969)».  In
seguito, e' stata offerta una nozione piu' ampia della garanzia della
liberta' di concorrenza ed e' stato osservato, in  primo  luogo,  che
essa ha «una duplice finalita': da un lato, integra  la  liberta'  di
iniziativa economica che spetta  nella  stessa  misura  a  tutti  gli
imprenditori  e,  dall'altro,  e'  diretta  alla   protezione   della
collettivita',  in  quanto   l'esistenza   di   una   pluralita'   di
imprenditori, in concorrenza tra loro, giova a migliorare la qualita'
dei prodotti e a contenerne i prezzi (sentenza n. 223 del 1982)»;  in
secondo luogo, che la concorrenza  costituisce  un  «valore  basilare
della  liberta'  di  iniziativa  economica  [...]   funzionale   alla
protezione degli interessi  dei  consumatori  (sentenza  n.  241  del
1990)» (cfr. piu' di recente, ex multis, Corte cost. sent. n. 270 del
2010). 
    La previsione legislativa impugnata, tuttavia,  nulla  ha  che  a
vedere con lo specifico  profilo  della  liberta'  concorrenziale  in
rapporto alla libera iniziativa economica che la Corta  ha  enucleato
dall'art. 41 Cost., dal momento che non attiene in  alcun  modo  alla
competizione  tra  imprenditori  e  ai  relativi  vantaggi   per   il
consumatore. La previsione di cui all'art. 41 Cost., di  conseguenza,
non puo' porsi quale titolo legittimante  l'invasione  statale  delle
competenze normative regionali. 
    Quanto al riferimento al principio  di  concorrenza  sancito  dal
Trattato dell'Unione europea, nelle materie di competenza  regionale,
spetta  alla   Regione   dare   attuazione   ai   vincoli   derivanti
dall'ordinamento comunitario (art. 117, comma 1 e  5,  Cost.),  senza
che cio' richieda un intervento  statale  intermedio.  Dunque,  anche
sotto  questo  profilo,  la  disciplina  impugnata  non  puo'   dirsi
legittima. 
    Certo, a  legittimazione  dell'imposizione  di  un  vincolo  alla
potesta' legislativa  concorrente  o  esclusiva  regionale,  potrebbe
invocarsi la potesta'  legislativa  esclusiva  statale  in  punto  di
«tutela della concorrenza» (art. 117, comma 2, lett e), Cost.). 
    Deve,  dunque,  ricordarsi  quale   significato   la   Corte   ha
riconosciuto alla locuzione. Essa, in particolare, ha rilevato che la
«tutela  della  concorrenza»  «comprende,  tra  l'altro,   interventi
regolatori che a titolo principale incidono sulla concorrenza, quali:
le misure legislative di  tutela  in  senso  proprio,  che  hanno  ad
oggetto gli atti ed i comportamenti  delle  imprese  che  influiscono
negativamente  sull'assetto   concorrenziale   dei   mercati   e   ne
disciplinano  le  modalita'  di  controllo,  eventualmente  anche  di
sanzione; le misure legislative di promozione, che mirano  ad  aprire
un  mercato  o  a  consolidarne   l'apertura,   eliminando   barriere
all'entrata, riducendo o  eliminando  vincoli  al  libero  esplicarsi
della capacita' imprenditoriale e della competizione tra imprese,  in
generale i  vincoli  alle  modalita'  di  esercizio  delle  attivita'
economiche (sentenze n. 430 e n. 401 del 2007 (...)  sentenze  n.  80
del 2006, n. 242 del 2005, n. 175 del 2005 e n. 272 del 2004)». 
    La disciplina impugnata - in relazione  al  fine  dichiarato  (di
promozione  della  concorrenza)  piu'  che  all'efficacia   ad   essa
connessa, come si vedra' scarsa - potrebbe, dunque,  al  piu'  essere
sussunta nell'ambito della «tutela della concorrenza» di cui all'art.
117, comma 2, lett. e), Cost., che - come noto  -  ha  una  capacita'
pervasiva trasversale. 
    Cio'  non  basterebbe,  comunque,  a  far  ritenere  conforme   a
Costituzione la previsione di  tali  precise  prescrizioni  limitanti
l'autonomia normativa, concorrenziale o esclusiva, regionale, codesta
Ecc.ma Corte ha, infatti, chiarito che, anche  una  volta  ricondotta
una norma nell'ambito della «tutela della concorrenza», «spetta  alla
Corte effettuare un rigoroso scrutinio delle relative norme  statali,
volto ad accertare se  l'intervento  normativo  sia  coerente  con  i
principi della concorrenza, e se esso sia  proporzionato  rispetto  a
questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303  e  38
del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le
altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010). 
    Ora, le novelle imposte  ai  legislatori  regionali  non  possono
certamente essere considerate coerenti e adeguate  rispetto  al  fine
perseguito. 
    La disciplina suppostamente di principio alla  quale  la  Regione
Veneto  dovrebbe  conformarsi,  infatti,  e'  talmente   generale   e
generica, indefinita e perplessa, da perdere qualsiasi  capacita'  di
fungere da riferimento e garantire l'obiettivo di tutela che essa  si
pone. Come tale, e', dunque, inoltre, inficiata da un autonomo  vizio
di illegittimita' costituzionale per contrasto con  il  principio  di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. 
    Le  indicazioni  e  l'ambito  di   applicazione   delle   imposte
abrogazioni  (comma  1)  e  del   precetto   di   interpretazione   e
applicazione in senso tassativo e restrittivo (comma 2), infatti, per
una parte, sono o dovrebbero ritenersi del tutto inutili  (cosi',  ad
esempio, per la previsione che vuole prive di cittadinanza nel nostro
ordinamento  le   disposizioni   in   contrasto   con   l'ordinamento
comunitario o viziate da  irragionevolezza)  e,  per  un'altra,  sono
tanto ampli quanto lo sono le  ipotesi  di  eccezione  o  contrappeso
contenute nei medesimi disposti normativi. E', quest'ultimo, il  caso
dell'imposta  abrogazione  di  disposizioni  normative  solo  se  non
giustificate da un non meglio precisato interesse generale o  se  non
ragionevoli, non adeguate, non proporzionate. 
    Ma lo stesso ragionamento puo' essere esteso ai prescritti limiti
all'obbligo di interpretazione e applicazione restrittiva e tassativa
delle disposizioni recanti divieti, restrizioni, oneri  o  condizioni
all'accesso o all'esercizio di attivita' economiche:  il  riferimento
ai «possibili danni  alla  salute,  all'ambiente,  al  paesaggio,  al
patrimonio artistico e culturale, alla sicurezza, alla liberta', alla
dignita' umana» e ai «possibili contrasti con l'utilita' sociale, con
l'ordine pubblico, con il  sistema  tributario  e  con  gli  obblighi
comunitari ed internazionali della Repubblica» (comma 2) e', infatti,
talmente vasto da lasciare  ben  poco  margine  all'applicazione  del
principio di cui sopra, prima facie lapidario. 
    Un  tanto  osservato  e  considerato,  dunque,  e'  evidente  che
l'intervento   legislativo    statale    interviene    sull'autonomia
legislativa regionale, esclusiva o concorrenziale, menomandola, senza
esserne  legittimato  neppure  dall'esercizio   di   una   competenza
trasversale quale la «tutela della  concorrenza»  perche'  privo  dei
requisiti di  ragionevolezza  ed  adeguatezza  che  la  stessa  Corte
costantemente richiede alle previsioni del legislatore  centrale  che
si muova in questo ambito materiale. 
    Se cosi' e', dunque,  neppure  potra'  imporsi  alle  Regioni  di
adeguarsi alle indicazioni  che,  ai  sensi  dell'art.  1,  comma  3,
saranno  date  dal  Governo  entro  la  fine  del   2012   con   atti
regolamentari (chiamati ad individuare  le  attivita'  per  le  quali
permane  l'atto  preventivo  di  assenso  dell'amministrazione  e   a
disciplinare i requisiti per l'esercizio delle  attivita'  economiche
nonche' i termini e  le  modalita'  per  l'esercizio  dei  poteri  di
controllo dell'amministrazione). Un tanto perche' un obbligo  di  tal
guisa si porrebbe in contrasto con l'art. 117, comma  6,  Cost.,  che
attribuisce allo Stato potesta' regolamentare unicamente  nell'ambito
delle materie di sua competenza legislativa esclusiva. 
    Nella denegata ipotesi, comunque, in cui si  riconoscessero  alla
disciplina impugnata caratteri di ragionevolezza, proporzionalita' ed
adeguatezza  tali  da  consentire  di  ricondurla  nell'ambito  della
«tutela della concorrenza», la competenza  statale  cosi'  esercitata
non potrebbe certo dirsi - in ragione delle censure gia'  espresse  -
prevalente e, dunque, in  grado  di  escludere  il  riferimento  alle
competenze legislative costituzionalmente garantite alle Regioni, qui
incise. Ne discenderebbe che dinnanzi a un  concorso  di  competenze,
non  potendosi  formulare  un   giudizio   di   prevalenza   dell'una
sull'altra, il legislatore  nazionale,  avrebbe  dovuto  ricorrere  a
strumenti di leale collaborazione (cfr. ex  multis,  Corte  cost.  30
dicembre 2009, n. 339). Dal momento che cio' non e' affatto avvenuto,
la   disciplina   impugnata   deve   essere    comunque    dichiarata
costituzionalmente illegittima per  contrasto  con  il  principio  di
leale collaborazione. 
    Quanto  all'imposto  obbligo  di  interpretare  e,   soprattutto,
applicare le  disposizioni  recanti  divieti,  restrizioni,  oneri  o
condizioni all'accesso e  all'esercizio  delle  attivita'  economiche
secondo  le  indicazioni  dell'art.  1,  comma  2,  la  Regione  deve
rilevare,  inoltre,  il  contrasto  dello  stesso   con   l'autonomia
nell'esercizio delle funzioni amministrative sancito e  tutelato  per
essa dall'art. 118 Cost. E tale profilo di  difformita'  rispetto  al
dettato costituzionale e', ancora una volta, aggravato dal  contenuto
perplesso ed indefinito della disposizione normativa di  riferimento.
Il tutto non potra' che ingenerare incertezze e ritardi  nell'operato
delle amministrazioni, anche regionali, che si rifletteranno  in  una
menomazione del principio di buon andamento di cui all'art. 97 Cost. 
    1.2 La disposizione normativa di cui all'art.  1,  comma  4,  qui
impugnata, poi,  presenta  un  ulteriore  profilo  di  illegittimita'
costituzionale. Essa, infatti,  oltre  ad  imporre  alle  Regioni  il
rispetto dei primi tre commi del  medesimo  articolo,  introduce  una
nuova forma di controllo sull'operato  -  addirittura  legislativo  -
delle Regioni, in palese contrasto con il principio autonomistico  di
cui all'art. 5 Cost., ma anche con quello di equiordinazione tra enti
costituenti la Repubblica (art. 114 Cost.) e con il principio di  cui
all'art. 9, comma 2, della legge costituzionale 18 ottobre  2001,  n.
3, che ha abrogato le forme di controllo di cui agli artt. 125 e  130
Cost. perche' non  piu'  coerenti  con  il  disegno  delle  autonomie
territoriali successivo alla revisione costituzionale del 2001. 
    Al fine di rendere piu' chiara la censura appena proposta, sembra
opportuno analizzare i caratteri della verifica  cui  il  legislatore
nazionale  assoggetta  gli  enti  territoriali:  oggetto,  parametro,
soggetto  deputato  alla  valutazione,  presupposti  del   controllo,
conseguenze della valutazione effettuata. 
    Quanto all'oggetto di controllo, esso e' - come si e' visto -  la
stessa attivita' legislativa (comma 1 e 3) e amministrativa (comma  2
e 3) della Regione. 
    Il  parametro  e'  costituito  dalle  disposizioni   di   preteso
principio contenute soprattutto nei commi 1 e  2,  disposizioni  che,
tuttavia, come gia' si e' rilevato, mancano dei requisiti  minimi  di
chiarezza, univocita' ed intelligibilita'  che  sono  necessari  allo
scopo. Tale carenza, stante il carattere rigido e  sanzionatorio  del
controllo  predisposto,  finisce,  da  un  lato,   con   l'ingenerare
incertezza nell'ente che dovrebbe adeguarsi ai summenzionati principi
(parametri del controllo) e, da un altro lato,  con  il  dilatare  la
discrezionalita' del controllore, al punto che per essa  sembra  piu'
corretto parlare di arbitrio. 
    Lo svolgersi delle considerazioni  induce,  dunque,  a  ragionare
circa l'identita' e la natura del soggetto deputato al controllo:  si
tratta   del   Ministero   dell'Economia   e   delle   Finanze,    su
sollecitazione-comunicazione  del  Presidente   del   Consiglio   dei
Ministri. E' evidente che non si  tratta  di  un  soggetto  terzo  ed
imparziale rispetto ai termini della valutazione che la  legge  dello
Stato gli attribuisce e  cio'  e'  tanto  piu'  evidente  laddove  si
consideri  che  la  disposizione   impugnata   rimette   al   Governo
addirittura la decisione sull'an stesso del controllo e, dunque,  sui
presupposti della verifica. 
    Quanto, infine, alle conseguenze,  non  si  tratta  certo  di  un
controllo di natura collaborativa, come  i  tanti  gia'  esistenti  e
«fatti salvi» da codesta  Ecc.ma  Corte,  proprio  in  considerazione
della loro natura (cfr.  Corte  cost.  sent.  n.  29  del  1995).  Al
contrario,  alla  valutazione  svolta  dal  Ministero  competente  si
ricollegano pesanti conseguenze economico-finanziarie per l'ente.  Il
mancato inserimento dello stesso nel novero degli  enti  virtuosi  ai
sensi dell'art. 20, comma 3, del decreto-legge 6 luglio 2011, n.  98,
importa, infatti, da un lato, un aggravamento  della  responsabilita'
nel concorso alla realizzazione degli obiettivi di  finanza  pubblica
e, dall'altro, un innalzamento del contributo dell'ente  stesso  alla
manovra annuale. 
    E' evidente  che  un  controllo  siffatto  si  pone  in  radicale
difformita' rispetto all'assetto  autonomistico  sancito  e  tutelato
dalla Costituzione per le Regioni e gli enti territoriali  e,  stante
le conseguenze appena ricordate  ad  esso  ricollegate,  finisce  con
l'incidere, menomandola, sull'autonomia finanziaria della  ricorrente
di  cui  all'art.  119  cost.  e  alla  legge  che  di   quest'ultima
disposizione fa applicazione: legge 5 maggio 2009, n. 42. 
    In particolare,  risultano  lesi:  i  principi  di  autonomia  di
entrata e di spesa (art. 1, comma 1); il principio di «certezza delle
risorse e stabilita' tendenziale del quadro  di  finanziamento»,  dal
momento  che  il  legislatore  statale  si  riserva  di  procedere  a
riduzione dei finanziamenti, (art. 2, comma 2, lett.  ll),  e,  ancor
piu' specificamente, il principio di «premialita'  dei  comportamenti
virtuosi ed  efficienti  nell'esercizio  della  potesta'  tributaria,
nella gestione finanziaria ed economica» e la relativa previsione  di
sanzioni di cui all'art. 2, comma 2, lett. z). Non si puo'  ignorare,
infatti, che le sanzioni cui si riferisce la disposizione  da  ultimo
citata sono quelle per gli enti che  «non  rispettano  gli  equilibri
economico-finanziari o non  assicurano  i  livelli  essenziali  delle
prestazioni (...) o l'esercizio delle funzioni  fondamentali  di  cui
all'articolo 117, secondo comma, lett. p)». I presupposti  di  questo
sistema sanzionatorio non sono affatto quelli di  cui  alla  verifica
prevista all'art. 1, comma 4, del decreto-legge n. 1/2012. 
    Alla luce di quanto  esposto,  si  chiede,  dunque,  che  codesta
Ecc.ma  Corte  voglia  dichiarare   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 1, comma 4, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n.  1,  cosi
come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n.  27  per
violazione degli artt. 3, 5, 97, 114, 117 (comma 1, 2, 3, 4,  5,  6),
118,  119  Cost.,  nonche'  all'art.  9,   comma   2,   della   legge
costituzionale  18  ottobre  2001,  n.  3,  del  principio  di  leale
collaborazione e dei principi di cui all'art. 1, comma 1, all'art. 2,
comma 2, lett. ll) e all'art. 2, comma 2, lett.  z),  della  legge  5
maggio 2009, n. 42. 
    2. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art.  25,
comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante
a seguito della conversione in legge n. 27/2012. 
    Del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come convertito con  legge  24
marzo 2012, n. 27, la Regione Veneto, impugna, in  parte  qua,  anche
l'art. 25, comma 1, lett. a). 
    Tale  disposizione  stabilisce  di   inserire   nel   corpo   del
decreto-legge 13 agosto 2011, n. 138, convertito, con  modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n.  148,  un  articolo  3-bis  recante
«Ambiti territoriali e criteri di  organizzazione  dello  svolgimento
dei servizi pubblici locali». 
    In particolare, della suddetta nuova disposizione, si contesta la
legittimita' costituzionale dei commi 2, 3, 4, 5. 
    2.1 Prima  di  procedere  con  la  prospettazione  delle  diverse
censure di legittimita' costituzionale della disciplina impugnata, si
ritiene opportuno svolgere una breve premessa in relazione al riparto
tra competenze  legislative  che,  nell'ambito  di  cui  si  discute,
vengono in rilievo. 
    Il patrocinio della Regione e' consapevole, in  via  preliminare,
di quale sia,  nella  disciplina  dei  servizi  pubblici  locali,  la
capacita'   di   penetrazione    trasversale,    riconosciuta,    per
giurisprudenza costante, da codesta Corte (cfr., ovviamente, sent. n.
325  del  2010),  della  materia  «tutela  della   concorrenza»,   di
competenza statale esclusiva. 
    E   tuttavia,   nel   contempo,   non    ignora    nemmeno    che
l'assolutizzazione  del  valore  della  concorrenza  finisce  con  il
«lasciare in ombra il rapporto con  gli  utenti.  ...  Non  e'  senza
significato che, trasformando il servizio pubblico in un problema  di
"competizione" fra gestori, i destinatari si trasformano in  clienti,
soggetti che non necessariamente coincidono con la collettivita'  ...
[L'ente territoriale] non si deve ridurre al rango  di  mero  custode
dell'interesse della concorrenza,  ma  deve  rivendicare  la  propria
tradizionale fisionomia  di  amministrazione  chiamata  a  effettuare
scelte politiche a favore della collettivita'» (cosi' F. Fracchia,  I
servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro it.,  2011,
c. 11-112). 
    Ogni rilievo di legittimita' costituzionale che si svolgera'  qui
di seguito trae  il  suo  primo  fondamento  proprio  della  rilevata
necessita' che  si  torni  a  dare  centralita'  ai  destinatari  del
servizio, destinatari di cui  e'  l'ente  ad  essere  esponenziale  e
responsabile. 
    2.2 Il comma 2 del nuovo art. 3-bis,  dispone  che  «In  sede  di
affidamento del servizio mediante  procedura  ad  evidenza  pubblica,
l'adozione  di  strumenti  di  tutela  dell'occupazione   costituisce
elemento di valutazione dell'offerta». 
    Si  tratta  evidentemente  -  alla  luce   della   giurisprudenza
costituzionale -  di  una  previsione  normativa  afferente  l'ambito
materiale di potesta' legislativa esclusiva statale di «tutela  della
concorrenza». 
    In questi casi, il bilanciamento fra le ragioni della concorrenza
e quelle  poco  sopra  richiamate  dell'utenza  passa  attraverso  il
necessario vaglio di ragionevolezza, proporzionalita'  e  adeguatezza
della disciplina impugnata, bilanciamento  che  si  richiede  oggi  a
codesta Ecc.ma Corte,  consapevoli  che  l'esercizio  della  potesta'
normativa esclusiva dello Stato in tema di tutela  della  concorrenza
potra' risultare legittimo solo a condizione che  tali  canoni  siano
rispettati, specie ove travalichi competenze regionali  (cfr.  sentt.
n. 14 del 2004, n. 407 del 2002, n. 272 del 2004). 
    Proprio alla luce  della  citata  giurisprudenza  costituzionale,
appare fondata la censura  del  disposto  di  cui  al  comma  2,  del
medesimo art. 3-bis, «la' dove  stabilisce,  dettagliatamente  e  con
tecnica auto applicativa» uno dei «criteri in base ai quali  la  gara
viene aggiudicata» (cfr. sent. n. 272 del 2004). 
    L'estremo   dettaglio   nell'indicazione   di   questo   criterio
(l'adozione di strumenti di tutela dell'occupazione), che  per  altro
non  prende  irragionevolmente  in  considerazione  nessun  ulteriore
requisito dei candidati aspiranti pur utili alla buona  gestione  del
servizio a livello locale (quod non, ad esempio, il  ridotto  impatto
ambientale, ovvero  il  risparmio  energetico,  l'economicita'  della
gestione, la promozione delle iniziative imprenditoriali e  giovanili
femminili?), va al di la' della pur  doverosa  tutela  degli  aspetti
concorrenziali   inerenti   alla   gara,   che   peraltro    appaiono
sufficientemente garantiti  dalle  normative  gia'  vigenti  (e'  una
parafrasi della sent. n. 272 del 2004). 
    Se cio' e' vero, l'intervento del legislatore  statale  «pone  in
essere una illegittima compressione dell'autonomia regionale, poiche'
risulta ingiustificato e  non  proporzionato  rispetto  all'obiettivo
della tutela della concorrenza» (cfr. Corte cost. sent.  n.  272  del
2004),  con  cio'  ledendo  gli  artt.  3,  quanto  al  principio  di
ragionevolezza, e 117 Cost. 
    Parallelamente essa  determina  una  compressione  dell'autonomia
regionale  nell'esercizio  delle  funzioni  amministrative,  tutelata
all'art.  118  Cost.,  sotto  il  profilo  della  contrazione   della
possibilita' di gestire  liberamente  l'affidamento  e  il  servizio,
magari tenendo in conto, alla luce dei  principi  di  sussidiarieta',
differenziazione  ed  adeguatezza,  delle  specificita'  territoriali
proprie. 
    2.3 Il comma 3 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
dispone che: «A decorrere dal 2013, l'applicazione  di  procedure  di
affidamento dei servizi a evidenza  pubblica  da  parte  di  regioni,
province e comuni o degli enti di governo locali  dell'ambito  o  del
bacino costituisce elemento di valutazione  della  virtuosita'  degli
stessi ai sensi dell'articolo 20, comma 2, del decreto-legge 6 luglio
2011, n. 98, convertito, con modificazioni,  dalla  legge  15  luglio
2011, n. 111. A tal fine, la Presidenza del Consiglio  dei  ministri,
nell'ambito dei compiti di  tutela  e  promozione  della  concorrenza
nelle  regioni  e  negli  enti  locali  comunica,  entro  il  termine
perentorio del 31 gennaio di ciascun anno, al Ministero dell'economia
e delle finanze gli enti che hanno provveduto all'applicazione  delle
procedure  previste  dal  presente  articolo.  In  caso  di   mancata
comunicazione entro il termine  di  cui  al  periodo  precedente,  si
prescinde dal predetto elemento di valutazione della virtuosita'». 
    La   previsione   impugnata   si   appalesa    costituzionalmente
illegittima sotto due profili. 
    Il primo attiene, nello specifico, la  previsione  di  una  nuova
forma di controllo sull'attivita' della Regione che passa  attraverso
la c.d. valutazione di virtuosita'. Con riferimento alla contrarieta'
a Costituzione di forme di controllo siffatte si e' gia'  argomentato
al punto 1.2 della parte di diritto del presente ricorso, alla quale,
dunque, si rinvia integralmente. 
    Il secondo aspetto di contrasto con la Costituzione  e',  invece,
del tutto peculiare della fattispecie normativa ora in esame. 
    Gli elementi che compongono il  controllo  di  virtuosita'  degli
enti,   ma,   soprattutto,   le   deteriori   conseguenze   derivanti
dall'eventuale mancata inclusione della Regione fra gli enti virtuosi
sono tali,  sotto  il  profilo  economico-finanziario,  specie  nella
situazione in cui versa il Paese, da indurre - rectius obbligare - di
fatto la Regione e gli enti  territoriali  ad  utilizzare  sempre  la
procedura ad evidenza  pubblica  per  l'affidamento  dei  servizi,  a
discapito delle procedure in house, anche nelle residuali ipotesi  in
cui  le  stesse  dovessero  risultare  preferibili  in   termini   di
efficienza e/o economicita'. 
    Una disposizione normativa di  tal  fatta  deve,  allora,  essere
dichiarata costituzionalmente illegittima, anzitutto, per  violazione
dell'art. 117, comma 1, Cost., per  contrasto  della  stessa  con  la
disciplina comunitaria. 
    Se e' ben vero che, con riferimento ai sistemi di affidamento dei
servizi,  il  legislatore  nazionale  gode,   rispetto   al   dettato
comunitario, di un certo margine  di  apprezzamento,  e'  altrettanto
vero che dall'ordinamento UE e' possibile trarre il principio per cui
l'affidamento ad evidenza pubblica non e' l'unico possibile,  potendo
ben essere affiancato, seppur in ipotesi marginali, da altre forme di
attribuzione della responsabilita' del servizio,  quali  l'in  house,
qualora queste si rivelino, di fatto, piu' ragionevoli ed efficienti,
non essendo permesso agli Stati membri  escludere  tout  court  dette
tipologie in modo assoluto. 
    La disposizione impugnata, inoltre, viola l'art. 117 Cost., anche
con  riferimento  al  riparto  della  potesta'   normativa   tra   il
legislatore  statale  e  quello  regionale.  Non  puo'  dimenticarsi,
infatti, che il legislatore  statale  gode  di  potesta'  legislativa
esclusiva  nell'ambito  della  «tutela  della  concorrenza»,  di  cui
all'art. 117,  comma  2,  lett.  e),  Cost.,  ma  che  un  intervento
legislativo statale in questa materia puo'  sperare  di  superare  il
sindacato di legittimita' costituzionale  solo  se  «coerente  con  i
principi della concorrenza, e se esso sia  proporzionato  rispetto  a
questo fine (sentenza nn. 63 e 51 del 2008 e nn. 421, 401, 303  e  38
del 2007)» (v. Corte cost. sent. n. 326 del 2008, poi ripresa, tra le
altre anche da Corte cost. sent. n. 270 del 2010). 
    La previsione  normativa  de  qua,  tuttavia,  e'  manifestamente
sproporzionata  rispetto  al  fine  dato.  Lo  dimostra,   anzitutto,
l'irragionevolezza stessa della disciplina nella parte in cui finisce
con l'escludere nei fatti la possibilita' di affidamenti in house, in
seguito ad una valutazione negativa operata ex ante,  mentre  e'  ben
possibile, in  concreto,  che  questa  tipologia  di  affidamento  di
servizi si dimostri in concreto piu' efficiente e  virtuosa.  Nessuna
possibilita'   di   vincere   la    presunzione    di    «tossicita'»
dell'affidamento e' resa possibile, invece, dal  legislatore  statale
(il controllo operato dal Ministero sulla  base  della  comunicazione
della Presidenza del Consiglio, infatti, si svolge addirittura  senza
alcuna forma di contraddittorio): di  qui  un  ulteriore  profilo  di
irragionevolezza. 
    In pratica agli enti territoriali e' negata  la  possibilita'  di
valutare le proprie esigenze e di scegliere la modalita' di  gestione
dei servizi rispetto a tali esigenze piu' confacente. In cio' sta  la
denunciata violazione dell'art. 118 Cost., leso anche  con  specifico
riferimento al  principio  di  sussidiarieta'  (dal  momento  che  la
valutazione sulle modalita' di affidamento  avviene,  una  volte  per
tutte,  ad  opera  del  livello  di  governo  centrale).  La   logica
conseguenza e' il contrasto - del pari meritevole di censura -  della
disciplina  impugnata  rispetto  al  principio  di   buon   andamento
dell'amministrazione, anche in relazione ai principi  di  efficienza,
efficacia ed economicita' (art. 97 Cost.). 
    Anche qui puo' giovare il confronto con la  diversa  sensibilita'
per la questione in ambito comunitario: se in Italia «anche a livello
normativo, nella scelta dell'organizzazione del servizio pubblico (si
pensi all'atteggiamento restrittivo serbato  dal  nostro  ordinamento
nei confronti dell'in house), sembra risultino prevalenti le  ragioni
della concorrenza (...) nel contesto comunitario, la centralita'  dei
destinatari e' molto evidente.  A  cio'  si  aggiunga  che,  in  quel
contesto, pure gli affidamenti diretti, se utili per  lo  svolgimento
della "missione", non sono affatto preclusi in  assoluto»  (cosi'  F.
Fracchia, I servizi pubblici e la retorica della concorrenza, in Foro
it., 2011, c. 11-112). La prospettiva del legislatore comunitario sul
punto e', dunque, ben piu' ragionevole! 
    Non puo' sottacersi, infine, che il marcato disfavore per sistemi
di  affidamento  diversi  dall'evidenza  pubblica,  che  deriva   dal
disposto di cui  all'art.  25  qui  censurato  del  decreto-legge  n.
1/2012, cosi' come risultante per opera della conversione  in  legge,
si pone anche in netta contraddizione con la  previsione  di  cui  al
successivo comma 4. Questo, infatti,  al  contrario,  prevede  che  i
gestori di servizi non  selezionati  tramite  procedura  ad  evidenza
pubblica  possano  accedere  a  finanziamenti  speciali,  alla   sola
condizione che l'Autorita' abbia di fatto (dunque, con valutazione in
concreto)  verificato  l'efficienza  gestionale  e  la  qualita'  del
servizio reso, con ogni conseguenza in termini  di  mancata  coerenza
interna del testo normativo de quo. 
    2.4 Il comma 4 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
dispone che «Fatti salvi i  finanziamenti  ai  progetti  relativi  ai
servizi pubblici locali di rilevanza economica cofinanziati con fondi
europei, i finanziamenti a qualsiasi  titolo  concessi  a  valere  su
risorse pubbliche statali ai sensi dell'articolo 119,  quinto  comma,
della Costituzione sono  prioritariamente  attribuiti  agli  enti  di
governo degli ambiti o dei bacini  territoriali  ottimali  ovvero  ai
relativi  gestori  del  servizio  selezionati  tramite  procedura  ad
evidenza pubblica  o  di  cui  comunque  l'Autorita'  di  regolazione
competente abbia verificato l'efficienza gestionale e la qualita' del
servizio reso  sulla  base  dei  parametri  stabiliti  dall'Autorita'
stessa». 
    Come  codesto  Ecc.mo  Collegio  ha  chiarito,  infatti,  in  via
generale, solamente due tipologie di fondi possono essere considerate
rispettose del dettato dell'art. 119 Cost.: i) un fondo  perequativo,
senza vincoli di destinazione, per i territori con  minore  capacita'
fiscale per abitante (art. 119, comma  3,  Cost.),  che,  insieme  ad
entrate e tributi propri e compartecipazione al  gettito  di  tributi
erariali riferibile al proprio territorio (art. 119, comma 2, Cost.),
serve a finanziare integralmente le funzioni pubbliche  attribuite  a
Regioni ed Enti locali (art. 119, comma  4,  Cost.)  e  ii)  «risorse
aggiuntive»  ed  «interventi  speciali»  in  favore  di   determinate
Regioni,  Province,  Citta'  metropolitane  e  Comuni,  al  fine   di
«promuovere lo sviluppo economico,  la  coesione  e  la  solidarieta'
sociale, (...) rimuovere gli squilibri  economici  e  sociali,  (...)
favorire l'effettivo  esercizio  dei  diritti  della  persona,  (...)
provvedere a scopi diversi dal normale esercizio delle loro funzioni»
(art. 119, comma 5, Cost.). 
    Dal momento  che  si  potrebbe  esser  tentati  di  sussumere  la
fattispecie in esame nella seconda ipotesi di fondo, si ricorda  che,
proprio in relazione a questi ultimi, codesto  Ecc.mo  Giudice  delle
leggi ha precisato che  essi  «non  solo  debbono  essere  aggiuntivi
rispetto al finanziamento integrale (...) delle funzioni spettanti ai
Comuni o agli altri enti, e riferirsi alle finalita' di  perequazione
e di garanzia enunciate nella  norma  costituzionale,  o  comunque  a
scopi diversi dal normale esercizio delle funzioni, ma debbono essere
indirizzati a determinati Comuni o categorie di Comuni  (o  Province,
Citta' metropolitane, Regioni)» e che «l'esigenza  di  rispettare  il
riparto costituzionale  delle  competenze  legislative  fra  Stato  e
Regioni comporta altresi' che, quando tali  finanziamenti  riguardino
ambiti  di  competenza  delle  Regioni,  queste  siano  chiamate   ad
esercitare  compiti  di  programmazione  e  di  riparto   dei   fondi
all'interno del proprio territorio» (cosi' Corte cost., sent.  n.  16
del 2004; Corte cost., sent. n. 22 del 2005). 
    Ora, i finanziamenti  di  cui  all'impugnato  comma  3  dell'art.
3-bis, introdotto dall'art. 25, comma 1, lett. a)  del  decreto-legge
n. 1/2012, cosi' come risultante dalla conversione in legge:  i)  non
possono dirsi aggiuntivi rispetto all'integrale  finanziamento  delle
funzioni in materia di servizi  pubblici,  a  causa  della  ben  nota
cronica sottostima del fabbisogno degli enti sul punto; ii) non  sono
indirizzati esclusivamente agli enti territoriali e per giunta questi
non sono predeterminati con sufficiente precisione; iii) in relazione
a detti finanziamenti, che pur si muovono nell'ambito  di  competenze
regionali, nessun coinvolgimento delle Regioni e'  previsto,  ne'  in
punto di programmazione, ne' in punto di distribuzione. 
    Pertanto  la  disciplina   normativa   citata   deve   dichiarasi
costituzionalmente illegittima per contrasto con l'art. 119 Cost.  e,
quanto al mancato coinvolgimento delle Regioni,  per  violazione  del
principio di leale collaborazione. 
    2.5 Il comma 5 del nuovo art. 3-bis aggiunto al d.l. n. 138/2011,
ad opera dell'art. 25 della l. n. 27/2012, dispone che  «Le  societa'
affidatarie in house sono assoggettate al patto di stabilita' interno
secondo le  modalita'  definite  dal  decreto  ministeriale  previsto
dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25  giugno  2008,  n.
112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n.  133,
e successive modificazioni. L'ente locale o l'ente di governo  locale
dell'ambito o  del  bacino  vigila  sull'osservanza  da  parte  delle
societa' di cui al periodo precedente dei vincoli derivanti dal patto
di stabilita' interno». 
    La  summenzionata  disposizione  ripropone   sostanzialmente   il
contenuto della prima parte della lett. a) del comma 10 dell'art.  23
bis del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112  (recante  «Disposizioni
urgenti  per  lo   sviluppo   economico,   la   semplificazione,   la
competitivita',  la  stabilizzazione  della  finanza  pubblica  e  la
perequazione Tributaria»), convertito, con modificazioni dalla  legge
6 agosto 2008, n. 133. 
    L'art.  23-bis  cit.  e'  stato  aggiunto  all'originario   corpo
normativo dalla legge di conversione 6 agosto  2008,  n.  133  ed  e'
entrato in vigore, in forza dell'art. 1, comma 4, di detta legge,  in
data 22 agosto 2008. Esso e' poi stato modificato dall'art. 15, comma
1, del decreto-legge 25 settembre 2009, n. 135 («Disposizioni urgenti
per  l'attuazione  di  obblighi  comunitari  e  per  l'esecuzione  di
sentenze  della  Corte  di  giustizia   delle   Comunita'   europee»)
convertito, con modificazioni, dalla legge 20 novembre 2009, n. 166. 
    La lett. a) del comma 10 dell'art. 23-bis d.l. n.  112/2008  (nel
testo risultante dalla modifica operata dal citato art. 15, comma  1,
decreto-legge n. 135/209, convertito in legge n. 166/2009)  disponeva
che «Il Governo, su proposta del  Ministro  per  i  rapporti  con  le
regioni ed entro il 31 dicembre 2009, sentita la Conferenza unificata
di cui all'articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281,
e  successive  modificazioni,  nonche'  le   competenti   Commissioni
parlamentari, adotta uno o piu' regolamenti, ai  sensi  dell'articolo
17, comma 2, della legge 23 agosto 1988,  n.  400,  al  fine  di:  a)
prevedere l'assoggettamento dei  soggetti  affidatari  cosiddetti  in
house di servizi pubblici locali  al  patto  di  stabilita'  interno,
tenendo conto delle scadenze fissate al comma 8,  e  l'osservanza  da
parte delle societa' in house e delle societa' a partecipazione mista
pubblica e privata di procedure ad evidenza pubblica  per  l'acquisto
di beni e servizi e l'assunzione di personale». 
    Come  noto,  tale  disposizione  e'  stata  dapprima  colpita  da
parziale declaratoria di illegittimita' costituzionale «limitatamente
alle parole: l'assoggettamento dei  soggetti  affidatari  diretti  di
servizi pubblici locali al patto di stabilita' interno  e»  ad  opera
della sentenza  n.  325/2010  di  codesta  Corte  (pubblicata  il  24
novembre  2010);  successivamente  l'intero  art.  23-bis  e'   stato
integralmente abrogato a seguito dell'esito del  referendum  popolare
del 12-13 giugno 2011 (cfr. d.P.R. 18 luglio 2011, n. 113). E'  cosi'
rimasto privo di base normativa anche l'intero  d.P.R.  attuativo  (7
settembre 2010, n. 168 recante  Regolamento  in  materia  di  servizi
pubblici locali di rilevanza economica, a norma dell'articolo 23-bis,
comma 10, del decreto-legge 25 giugno 2008, n. 112,  convertito,  con
modificazioni, dalla legge 6 agosto 2008, n. 133),  ivi  incluso,  in
particolare, l'art. 5, rubricato, per l'appunto, «Patto di stabilita'
interno». 
    Diversamente detto, a causa della caducazione imposta dal Giudice
delle leggi, era venuto meno il presupposto legislativo  per  potersi
affermare l'assoggettabilita' delle societa' in  house  al  patto  di
stabilita' interno. 
    Sennonche', prima della predetta legge novembrina n. 166/2009 (di
modifica  dell'originario  art.  23-bis  del  d.l.  n.  112/2008)  e,
ovviamente,  prima  della  pubblicazione  della  citata  sentenza  n.
325/2010, l'art. 19, comma 1, della  legge  3  agosto  2009,  n.  102
(recante Conversione in legge, con modificazioni,  del  decreto-legge
1° luglio 2009,  n.  78,  recante  provvedimenti  anticrisi,  nonche'
proroga  di  termini  e  della  partecipazione  italiana  a  missioni
internazionali e pubblicata in G.U. del  4  agosto  2009)  aggiungeva
all'art. 18 del d.l. n.  112/2008,  un  comma  2-bis  in  sostanziale
continuita'  con  l'originale  formulazione  dell'art.   23-bis   dal
seguente tenore: «con decreto  del  Ministro  dell'economia  e  delle
finanze, di concerto con i Ministri dell'interno e per i rapporti con
le regioni, sentita la Conferenza unificata di cui all'articolo 8 del
decreto  legislativo  28  agosto   1997,   n.   281,   e   successive
modificazioni, da emanare entro il 30 settembre 2009,  sono  definite
le modalita' e la  modulistica  per  l'assoggettamento  al  patto  di
stabilita' interno delle societa' a  partecipazione  pubblica  locale
totale o di controllo che siano titolari di  affidamenti  diretti  di
servizi pubblici locali senza  gara,  ovvero  che  svolgano  funzioni
volte a soddisfare esigenze di interesse  generale  aventi  carattere
non industriale ne' commerciale, ovvero che  svolgano  attivita'  nei
confronti della  pubblica  amministrazione  a  supporto  di  funzioni
amministrative    di    natura     pubblicistica».     A     conferma
dell'assoggettabilita' al patto di stabilita' interna delle  societa'
in  house  previa  definizione  delle  relative  modalita'  per   via
ministeriale. 
    In definitiva, il nuovo art. 18, comma 2-bis,  sebbene  fosse  ab
origine  coerente  con  i  contenti  dell'art.  23-bis  del  medesimo
decreto-legge n. 112/2008 (e, in  fondo,  servisse  a  segnalare  che
l'ivi  previsto  regolamento  governativo  non   era   ancora   stato
adottato),   fini'   inopinatamente   con   l'operare    in    aperta
contraddizione rispetto ad esso, quando quest'ultimo  fu  colpito  da
incostituzionalita'  e  parzialmente  annullato:  con  il   risultato
paradossale della sopravvenuta antinomia fra l'una  disposizione  che
assoggettava le societa' in house al patto di stabilita' con  rinvio,
quanto al quomodo, ad un adottando  decreto  ministeriale  e  l'altra
disposizione  annullata  proprio  perche'  assoggettava  le  medesime
societa' in house al patto di stabilita' con la  stessa  tecnica  del
rinvio ad uno o piu' adottandi regolamenti governativi. 
    La situazione, lungi dall'avviarsi al chiarimento, si fece  ancor
piu' nebulosa. 
    Infatti, in totale spregio tanto dell'esito referendario,  quanto
dell'acclarata illegittimita' costituzionale dell'art.  23-bis  e  in
asserita reviviscenza  dell'art.  18,  comma  2-bis,  il  legislatore
statale, peraltro con la dichiarata finalita' di  «Adeguamento  della
disciplina dei servizi pubblici locali al referendum popolare e  alla
normativa dell'Unione europea», (nuovamente) disponeva, al  comma  14
dell'art. 4 del d.l. 13  agosto  2001,  n.  138  (recante  «Ulteriori
misure urgenti per la stabilizzazione finanziaria e per lo  sviluppo.
Delega al Governo per la  riorganizzazione  della  distribuzione  sul
territorio degli uffici giudiziari», convertito,  con  modificazioni,
dalla legge 14 settembre 2011, n. 148), che «Le  societa'  cosiddette
"in house" affidatarie dirette della  gestione  di  servizi  pubblici
locali sono assoggettate al patto di stabilita'  interno  secondo  le
modalita' definite, con il concerto del Ministro per le  riforme  per
il federalismo, in sede di attuazione dell'articolo 18,  comma  2-bis
del decreto-legge 25 giugno 2008, n.  112,  convertito  con  legge  6
agosto 2008, n. 133, e  successive  modificazioni.  Gli  enti  locali
vigilano sull'osservanza, da parte dei soggetti indicati  al  periodo
precedente al cui capitale partecipano,  dei  vincoli  derivanti  dal
patto di stabilita' interno». Un tanto (non in via generale, ma)  con
le espresse limitazioni di cui al comma 34  che  esclude  dall'intera
disciplina dell'art.  4  i  settori  del  servizio  idrico  integrato
(tranne i commi da 19 a 27), del servizio  di  distribuzione  di  gas
naturale  (salvo  il  comma  33),  del  servizio   di   distribuzione
dell'energia  elettrica,  del  servizio  di   trasporto   ferroviario
regionale, della gestione delle farmacie comunali. 
    2.5.1 Entro l'accennato  contesto  normativo  va  considerata  la
disposizione qui gravata, introdotta dall'art. 25 del d.l. n. 1/2012,
convertito in legge n. 27/2012. 
    In prima  battuta  non  puo'  che  osservarsi  che  con  siffatta
disposizione,  lo  Stato  (Governo,  prima,   e   Parlamento,   poi),
demandando nuovamente ad una  fonte  sub-legislativa  la  definizione
delle modalita' per l'assoggettamento al patto di stabilita'  interno
delle societa' in house, pretende - come usa dire - di far  rientrare
dalla finestra quanto codesto Giudice aveva poco prima  fatto  uscire
dalla porta. 
    Contro tale indebito tentativo e' agevole opporre e riproporre il
medesimo giudizio  gia'  espresso  da  codesta  Corte,  la  quale  ha
riconosciuto  la  fondatezza  delle  doglianze  regionali  contro  la
disciplina statale (del comma 10, lett. a),  prima  parte,  dell'art.
23-bis del d.l. n. 112/2008) «in  cui  si  prevede  che  la  potesta'
regolamentare dello Stato prescriva  l'assoggettamento  dei  soggetti
affidatari diretti di servizi pubblici locali al patto di  stabilita'
interno». 
    Segnatamente, va rammentato che  «l'ambito  di  applicazione  del
patto di stabilita' interno attiene alla  materia  del  coordinamento
della finanza pubblica (sentenze n. 284 e n. 237 del 2009; n. 267 del
2006), di competenza legislativa concorrente,  e  non  a  materie  di
competenza legislativa  esclusiva  statale,  per  le  quali  soltanto
l'art. 117, sesto comma, Cost. attribuisce  allo  Stato  la  potesta'
regolamentare» (cosi' sent. n. 325 del 2010). 
    Donde la violazione, nel caso di specie, dell'art. 117,  terzo  e
sesto  comma,  Cost.:  lo  Stato,  non  avendo  potesta'  legislativa
esclusiva  in  subiecta  materia,  e'  privo  anche  della   potesta'
regolamentare  e  ad  essa  non  puo'  far  rinvio,  ne'  ipotizzando
regolamenti governativi ex art. 17, secondo comma,  l.  n.  400/1988,
ne' ipotizzando decreti ministeriali ex art. 18, comma 2-bis, d.l. n.
112/2008. 
    2.5.2 Come osservato, l'assoggettamento delle societa'  in  house
al patto di stabilita' interno secondo modalita' da definirsi per via
regolamentare e' stato previsto (con  varie  formulazioni),  a  tacer
d'altro, dalla legge (di conversione) 6 agosto 2008, n. 133 del  d.l.
n. 112/2008, dall'art. 19, comma 1, della legge 3 agosto 2009 n. 102;
dall'art. 15, comma 1, del decreto-legge n. 135/2009, convertito, con
modificazioni, dalla  legge  20  novembre  2009,  n.  166;  e'  stato
dichiarato  incostituzionale  con  sentenza  n.  325/2010;  e'  stato
reintrodotto dall'art. 4 del decreto-legge n. 138/2011 (convertito in
legge n. 148/2011); e' stato ribadito dal qui  gravato  art.  25  del
decreto-legge n. 1/2012 (convertito in legge n. 27/2012). 
    Cio' premesso, non si  dica  che  la  doglianza  non  e'  fondata
assumendo  che  il  denunciato  contrasto  non  tanto   riguarda   la
disposizione censurata, quanto,  i  suoi  «antecedenti  storici»,  in
particolare, il «remoto» art. 18, comma 2-bis, del d.l. n. 112/2008 e
il piu' recente art. 4, comma 14, del d.l. n. 138/2011. 
    Fin  d'ora,  infatti,  laddove  fosse  ritenuto  necessario,   il
sottoscritto patrocinio insta  espressamente  affinche'  il  presente
giudizio  sia  esteso  d'ufficio   alle   citate   disposizioni   per
autorimessione  della  relativa  questione  avanti   a   se   stessa,
sull'assunto, piu' volte ribadito, che il  giudizio  di  legittimita'
costituzionale ha ad oggetto la norma (come «situazione normativa») e
non le singole disposizioni-atti. 
    E, comunque sia, rileva: 
        a) quanto all'art. 18, comma 2-bis  cit.:  da  un  lato,  che
esso, a ben vedere, e' stato implicitamente abrogato  dal  successivo
art. 23 bis (nel testo risultante dalla modifica operata  dal  citato
art. 15, comma 1, d.l. n. 135/209, convertito in legge n.  166/2009),
il quale, a sua volta, e' stato poi dichiarato  incostituzionale  (e,
per  insegnamento   costante,   l'incostituzionalita'   della   norma
abrogante  non  determina  l'automatica  reviviscenza   della   norma
abrogata);   dall'altro,   che   la   sua   illegittimita'    avrebbe
dovuto/potuto  essere  dichiarata   dalla   stessa   Corte   in   via
conseguenziale (stante il rapporto di sostanziale  identita'  fra  le
due disposizioni): illegittimita' che «deriva come conseguenza  dalla
decisione adottata» ex art. 27  l.  n.  87/1953;  infine,  che  esso,
contrastando  ictu  oculi  con  gli  effetti  prodotti  dalla  citata
sentenza n. 325/2010, in  conseguenza  dell'intervenuto  annullamento
dell'art. 23-bis, sarebbe quanto meno divenuto inapplicabile  se  non
automaticamente illegittimo; 
        b) quanto all'art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2011 cit.: che la
disposizione oggi  sub  judice  (art.  25  cit.)  ha,  indubbiamente,
rispetto alla prima disposizione, forza e contenuto novativi: i)  per
un verso, perche' non si risolve in una mera duplicazione  di  quanto
gia' prevedeva il citato art. 4, comma 14, d.l. n. 138/2001:  infatti
essa afferma il vincolo del rispetto del patto di stabilita' a carico
di tutte le societa' affidatarie in house in  termini  generalizzati,
estendendolo a tutte le societa' partecipate dagli  enti  senza  piu'
contemplare quelle esclusioni (i.e. quelle di cui al comma 34),  che,
precedentemente limitavano l'ambito di applicazione dell'art.  4  del
d.l. n. 138/2011; ii) perche', anche con riguardo  alle  societa'  in
house costituite ai sensi (e nei limiti) del citato art.  4  d.l.  n.
138/2011 (non, dunque, quelle escluse dal comma 34),  riduce  da  900
mila a 200 mila euro il valore  economico  del  servizio  oggetto  di
affidamento gara (cfr. art. 25, d.l. n. 1/2012, lett.  b,  punto  5);
iii) perche' il nuovo  assoggettamento  «ministeriale»  non  richiede
piu' il «concerto del Ministro per le riforme per il federalismo», ma
si  limita   a   richiedere   il   «decreto   ministeriale   previsto
dall'articolo 18, comma 2-bis del decreto-legge 25  giugno  2008,  n.
112, convertito, con modificazioni, con legge 6 agosto 2008, n.  133,
e successive modificazioni»;  iv)  perche',  infine,  e'  proprio  la
tuttora perdurante mancata  adozione  del  decreto  ministeriale  che
alimenta di novita' normativa  le  disposizioni  da  ultimo  adottate
dallo Stato. 
    E,  in  definitiva,  il  novum  di  normativita'  espresso  dalla
disposizione gravata  giustifica  la  sua  autonoma  impugnazione  in
questa sede.  E  con  essa  l'interesse  regionale  a  che  ne  venga
dichiarata l'illegittimita' costituzionale. 
    Alla luce di quanto  esposto,  si  chiede,  dunque,  che  codesta
Ecc.ma Corte voglia  dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale  in
parte qua dell'art. 25, comma  1,  lett.  a),  del  decreto-legge  24
gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in  legge
24 marzo 2012, n. 27 per violazione degli artt. 3, 97, 117 (comma  1,
2, 3,  4,  6),  118,  119  Cost.,  nonche'  del  principio  di  leale
collaborazione. 
    3. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 35, comma  8,  9,
10 e 13, del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante a seguito
della conversione in legge n. 27/2012. 
    3.1 Con la conversione in legge del decreto che ha  re-introdotto
il sistema di tesoreria unica, la Regione Veneto si vede costretta  a
riproporre, ovviamente alla  luce  delle  intervenute  modifiche,  le
doglianze che gia' in principalita'  aveva  avanzato  avverso  l'atto
governativo. 
    In particolare, fa osservare che, in virtu' della  previsione  di
cui all'art. 52 della propria legge regionale n. 39 del  29  novembre
2001 (recante «Ordinamento del Bilancio e  della  Contabilita'  della
Regione»), ha in corso  con  l'istituto  Unicredit  Banca  s.p.a.  un
contratto per l'affidamento del servizio di tesoreria,  stipulato  in
Venezia il 17  dicembre  2008,  della  durata  di  anni  cinque,  con
decorrenza dal 1° gennaio 2009 e scadenza al 31  dicembre  2013,  che
viene (rectius veniva) svolto secondo  le  modalita'  e  i  contenuti
previsti dal Capitolato speciale d'oneri allegato allo stesso. 
    In  adempimento  a  questo  contratto,  Unicredit  Banca   s.p.a.
eseguiva per conto della Regione Veneto, il «complesso di  operazioni
connesse alla gestione  finanziaria  dell'Amministrazione  Regionale,
tra l'altro alla riscossione delle entrate, al pagamento delle spese,
nonche' all'amministrazione e alla custodia dei titoli e  valori  ed,
in generale, agli adempimenti previsti dalla  Legge  di  contabilita'
regionale n. 39 del 29 novembre 2001». 
    Tale   servizio   costituisce   una   fonte   di   entrata    per
l'Amministrazione regionale dato che alle operazioni esecutive  degli
obblighi  contrattuali  viene  applicato  a  credito   sui   depositi
(giacenze di cassa) «un tasso attivo a  capitalizzazione  trimestrale
di interesse lordo pari a + 66 (sessantasei)  punti  base  di  spread
sull'Euribor un mese (base 365) media mese  precedente  pro  tempore»
(cfr.  art.  4  del  contratto),  verso  un  tasso  passivo  per   le
anticipazioni di tesoreria pari  a  «+  41  (quarantuno)  punti  base
sull'Euribor un mese (base 365) media mese precedente pro tempore». 
    Il contratto non prevede altri oneri, ne' commissioni bancarie  a
carico di terzi, ne' addebiti per incassi o  emissioni,  RID  -  MAV,
commissioni pagamenti all'estero, spese postali, etc.  ne'  per  ogni
altra imposta o onere conseguente all'attivita'  oggetto  di  appalto
(cfr. art. 5 del contratto). Ne' prevede aggio o corrispettivo alcuno
per il tesoriere (cfr. art. 11 del Capitolato d'oneri, allegato D  al
contratto). 
    Conseguentemente, ogni attivita' viene  gestita  dalla  Unicredit
Banca s.p.a. attraverso la propria filiale di Venezia,  sita  in  San
Marco - Mercerie dell'Orologio, 191, presso la  quale  e'  aperto  il
conto corrente speciale n. 000100537110 sul  quale,  quotidianamente,
corrisponde  la  Direzione  Ragioneria   della   Regione,   sia   per
l'esecuzione dei mandati  emessi,  sia  per  la  registrazione  delle
reversali di incasso, che  per  ogni  altra  operazione  inerente  al
rapporto. 
    Come da estratto conto al 31 dicembre 2011, a  fine  anno  questo
presentava un saldo di € 346.659,50 a fronte  di  una  movimentazione
nel mese di dicembre 2011 di € 1.469.623.076,07 in  entrata  e  di  €
1.481.967.129,32 in uscita,  che  corrispondono  all'andamento  medio
mensile della finanza regionale, che opera per bilancio di cassa  con
circa 14 miliardi di euro all'anno. 
    Quanto alle risorse amministrate queste provengono da piu' fonti:
accanto alla entrate per trasferimenti  dallo  Stato,  si  registrano
anche  entrate  proprie,  distinguibili  perche'  derivanti  sia  dai
tributi, sia da entrate patrimoniali conseguenti a rapporti, vuoi  di
diritto pubblico vuoi di diritto privato. 
    Quanto alle entrate da tributi propri, queste derivano  in  buona
parte da imposte quali: l'addizionale regionale IRPEF (per un gettito
di circa due miliardi di euro) e l'IRAP;  il  «bollo  auto»  (per  un
gettito nel 2011 di 676,05 milioni di euro circa) e le varie tasse di
concessione regionale, tasse  universitarie  e  di  abilitazione,  il
tributo speciale per il deposito in discarica dei rifiuti, le  accise
per gasolio e benzina, l'addizionale  regionale  sul  gas  metano  ed
altre entrate proprie registrate al Titolo 1° fra  i  tributi  propri
(per un gettito di 284,5 milioni di euro circa). 
    3.2 Il Governo nazionale, con il decreto-legge 24  gennaio  2012,
n. 1, all'art. 35, commi 8, 9, 10 e 13, ha  introdotto,  a  sedicenti
fini  di  «tutela  dell'unita'  economica  della  Repubblica  e   del
coordinamento  della  finanza  pubblica»,  disposizioni  a  contenuto
sostanzialmente ablativo delle risorse della Regione e  lesivo  delle
attribuzioni costituzionali di quest'ultima. Cio'  senza  soprattutto
distinguere - e qui  la  peculiare  gravita'  dell'iniziativa  -  fra
risorse provenienti dallo  Stato  e  risorse  che  sono  il  provento
dell'attivita' propria dell'amministrazione regionale. 
    Il significato concreto di tali disposizioni  e'  ricavabile  dal
contenuto degli artt. 7, 8 e 9 del decreto legislativo 7 agosto 1997,
n. 279  (recante  «Nuove  modalita'  di  attuazione  del  sistema  di
tesoreria unica»), il quale, derogando al regime di  tesoreria  unica
di cui alla previgente legge 29  ottobre  1984,  n.  720,  aveva,  in
sintesi,  previsto   che   le   Regioni,   attraverso   un   percorso
istituzionale ben definito, potessero, in modo  progressivo,  dotarsi
di una propria tesoreria, in corrispondenza  al  maggior  livello  di
autonomia da queste conseguite: a) sia a coronamento degli ambiti  di
competenza nel frattempo trasferiti dallo  Stato,  anche  in  materia
tributaria; b) sia  in  adeguamento  al  nuovo  quadro  istituzionale
proveniente dai cd. «Decreti  Bassanini»  (in  particolare  legge  n.
59/1997 e decreto legislativo n. 112/1998); c) sia in  ragione  della
prevista modifica dell'assetto costituzionale delle autonomie  locali
poi trasfuso nella revisione del Titolo V della seconda  parte  della
Costituzione. 
    In  breve,  attraverso  il  meccanismo  introdotto  dal   decreto
legislativo n.  279/1997,  dapprima  in  via  sperimentale  ai  sensi
dell'art.  9,  quindi   attraverso   successivi   provvedimenti   del
Presidente del Consiglio dei Ministri, intercorsi tra il  1999  e  il
2001 (transitati attraverso le procedure di cui all'art. 8), tutte le
entrate della Regione, comprese quelle proprie (ai sensi dell'art.  7
originariamente non destinate ad essere versate nella tesoreria unica
nazionale), sono state  gestite  in  sede  locale  attraverso  propri
servizi di tesoreria. 
    Viceversa,  dal  novello  impianto  normativo  dell'art.  35  del
decreto-legge n. 1/2012 si ricava, in tutta evidenza, come  l'effetto
proprio dei commi 8,  9  e  10  sia  oggi  essenzialmente  quello  di
concentrare  presso   la   tesoreria   unica   dello   Stato   (sulle
«contabilita' speciali (...) aperte  presso  la  tesoreria  statale»)
tutto il patrimonio in numerarlo della Regione: a) quello formato  da
trasferimenti dello Stato; b) il  portato  delle  entrate  tributarie
proprie; e c) il  risultato  della  propria  attivita'  afferente  ai
rapporti esclusivi, di diritto pubblico o di diritto privato. 
    Ad aggravare la gia' evidente lesione dell'autonomia e  lo  stato
di incertezza generato dall'intervento normativo, per giorni (rectius
settimane), lo Stato, non ha comunicato all'Amministrazione regionale
i tempi e i modi per poter continuare a svolgere le proprie  funzioni
di entrata e di spesa attraverso  la  tesoreria  unica  dello  Stato.
L'unico documento sul punto e' stata  una  nota  ABI:  un  «Messaggio
urgente da inviare alle direzioni  e  agli  uffici  organizzazione  e
tesoreria enti soggetti utenti del SITRAD», privo di data e di firma,
con  il  quale  l'ABI  (l'associazione  delle  banche  italiane)   ha
informato Unicredit Banca  s.p.a.  circa  i  «Criteri  di  versamento
presso le contabilita' speciali degli enti» in «attuazione» dell'art.
35, commi 8-13, del decreto-legge  n.  1/2012.  Espone,  infatti,  il
citato messaggio quanto l'ABI avrebbe «appreso per le vie  brevi  dai
competenti uffici ministeriali»:  segno  tangibile  di  una  assoluta
mancanza di indicazioni attuative provenienti da parte di chi avrebbe
dovuto  esercitare  la  dovuta  attivita'   di   informazione   circa
l'esecuzione del provvedimento legislativo. 
    A questo riguardo spiace poi dover notare che le informazioni per
«le vie brevi» fornite dai «competenti uffici ministeriali»  (quali?)
sarebbero peraltro state date dopo  essere  state  «condivise  con  i
rappresentanti (...) della Conferenza delle Regioni» (quando?). 
    Malgrado queste fantasiose affermazioni, nulla di cio' e' affatto
avvenuto.  Qualora  fosse  stato  espresso  un   consenso   in   sede
istituzionale dalle Regioni,  questo  si  sarebbe  dovuto  quantomeno
tradurre in un verbale di incontro, in una  nota  scritta  o  in  una
qualsiasi altra forma di documento,  dei  quali  non  vi  e'  traccia
alcuna. 
    Il messaggio dell'ABI, poi, oltre a non dare - come rilevato - le
essenziali disposizioni attuative,  si  prodiga,  invece,  a  fornire
istruzioni gravemente lesive degli obblighi  negoziali  previsti  nel
contratto di prestazione del servizio di  tesoreria,  laddove  queste
impongono alle banche associate e, nel caso di  specie  ad  Unicredit
banca s.p.a., adempimenti ultronei rispetto al  decreto-legge,  senza
averne - all'evidenza - la necessaria forza e legittimazione. 
    Inter alia, secondo l'ABI, (ma non ai sensi  del  decreto-legge),
che nuovamente  riferisce  le  indicazioni  di  non  meglio  definiti
«competenti uffici ministeriali», il trasferimento  de  quo  riguarda
anche le somme pignorate presso il  tesoriere,  malgrado  il  vincolo
giudiziario di indisponibilita' gravante sulle stesse, a meno di  non
presupporre (ma nuovamente il decreto-legge in questo senso non  dice
nulla) il trasferimento  ex  re  alla  tesoreria  unica  anche  degli
obblighi del terzo pignorato. 
    Rilevati numerosi profili di illegittimita' costituzionale  della
normativa statale  richiamata,  la  Regione  Veneto  ha  promosso  un
giudizio di legittimita' costituzionale in via principale avanti alla
Corte costituzionale (reg. ric. n. 60/2012). Analogamente ha fatto la
Regione Piemonte (ricorso inserito nel registro ricorsi  della  Corte
al n. 35/2012). 
    Contestualmente, la Regione, come molti altri  enti  territoriali
(Comuni e Province, non solo del Veneto),  ha  promosso  un  giudizio
cautelare avanti il Giudice ordinario  competente  (per  la  vicenda,
quello di Venezia), allo scopo di ottenere, rilevata l'illegittimita'
costituzionale della  disciplina  normativa,  una  sospensione  della
stessa: in particolare, degli  effetti  conseguenti  all'avvicendarsi
delle diverse scadenze ivi previste. 
    Inopinatamente il ricorso promosso, cosi' come -  seppur  con  le
peculiarita' delle singole vicende - le ulteriori iniziative  cui  si
e' accennato, non hanno  sortito  buon  esito,  dal  momento  che  il
Tribunale ordinario ha, in alcuni casi, declinato  la  giurisdizione,
in altri, negato la tutela cautelare e persino la possibilita' stessa
di rimettere la questione alla Corte, con cio' negando giustizia. 
    Le disposizioni normative di cui all'art. 35 del d.l.  n.  1/2012
sono state, in seguito, quasi integralmente  confermate  in  sede  di
conversione del menzionato decreto, avvenuta con legge 24 marzo 2012,
n. 27. 
    Ai fini di semplificare la lettura e la comprensione del presente
atto, si riportano per intero, i commi 8, 9, 10 e 13  del  menzionato
art. 35, cosi' come risultanti a seguito della conversione in legge: 
    «8. Ai fini della tutela dell'unita' economica della Repubblica e
del coordinamento della finanza pubblica, a decorrere dalla  data  di
entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2014, il
regime di  tesoreria  unica  previsto  dall'articolo  7  del  decreto
legislativo 7 agosto 1997, n. 279 e' sospeso.  Nello  stesso  periodo
agli enti e organismi pubblici soggetti al regime di tesoreria  unica
ai sensi del citato articolo 7 si applicano le  disposizioni  di  cui
all'articolo 1 della legge 29 ottobre 1984,  n.  720  e  le  relative
norme amministrative di attuazione. Restano escluse dall'applicazione
della presente disposizione le disponibilita'  dei  predetti  enti  e
organismi pubblici rivenienti da operazioni di mutuo, prestito e ogni
altra forma di indebitamento non  sorrette  da  alcun  contributo  in
conto capitale o in conto  interessi  da  parte  dello  Stato,  delle
regioni e delle altre pubbliche amministrazioni. 
    9. Alla data del 29 febbraio 2012 i tesorieri  o  cassieri  degli
enti ed organismi pubblici di cui al comma 8 provvedono a versare  il
50 per cento delle disponibilita' liquide esigibili depositate presso
gli stessi alla data di entrata in vigore del presente decreto  sulle
rispettive  contabilita'  speciali,  sottoconto  fruttifero,   aperte
presso la tesoreria statale. Il versamento della quota rimanente deve
essere effettuato  alla  data  del  16  aprile  2012.  Gli  eventuali
investimenti  finanziari  individuati  con  decreto   del   Ministero
dell'economia e delle finanze - Dipartimento del  Tesoro  da  emanare
entro il 30 aprile 2012, sono smobilizzati, ad eccezione di quelli in
titoli di Stato italiani, entro il  30  giugno  2012  e  le  relative
risorse  versate  sulle  contabilita'  speciali  aperte   presso   la
tesoreria statale. Gli  enti  provvedono  al  riversamento  presso  i
tesorieri e cassieri delle somme depositate presso  soggetti  diversi
dagli stessi tesorieri o cassieri entro il 15 marzo 2012. Sono  fatti
salvi eventuali versamenti gia' effettuati alla data  di  entrata  in
vigore del presente provvedimento. 
    10. I tesorieri o cassieri degli enti ed  organismi  pubblici  di
cui al comma 8 provvedono ad adeguare la  propria  operativita'  alle
disposizioni di cui all'articolo 1 della legge 29  ottobre  1984,  n.
720,  e  relative  norme  amministrative  di  attuazione,  il  giorno
successivo  a  quello  del  versamento  della  residua  quota   delle
disponibilita' previsto al comma 9. Nelle more di tale adeguamento  i
predetti tesorieri  e  cassieri  continuano  ad  adottare  i  criteri
gestionali previsti dall'articolo 7 del decreto legislativo 7  agosto
1997, n. 279. 
    13. Fermi  restando  gli  ordinari  rimedi  previsti  dal  codice
civile, per effetto delle disposizioni di cui ai precedenti commi,  i
contratti di tesoreria e di cassa degli enti ed organismi di  cui  al
comma 8 in essere alla data di entrata in vigore del presente decreto
possono essere rinegoziati in via diretta tra  le  parti  originarie,
ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti  stessi.
Se le parti non raggiungono l'accordo, gli enti  ed  organismi  hanno
diritto di recedere dal contratto». 
    In sintesi, questi i contenuti. 
    Il comma 8 sospende il sistema di tesoreria c.d. mista. 
    Il comma 9 rivolge all'attuale Tesoriere l'ordine  di  consegnare
l'ammontare della cassa detenuta presso il conto  corrente  intestato
alla Regione Veneto, con due versamenti da effettuarsi, il  primo  al
29 febbraio 2012, il secondo il 16 aprile successivo; infine,  impone
la smobilizzazione degli investimenti finanziari da individuarsi  con
futuro decreto ministeriale. 
    Il comma 10, a seguito della conversione in  legge,  impone  alla
banca tesoriere di adeguare la propria operativita'  al  nuovo-antico
regime di tesoreria a partire dal 17 aprile  2012,  consentendo  che,
nelle more, essa continui ad adottare i criteri  gestionali  in  uso.
Come questi si concilino con un sistema  di  tesoreria  completamente
diverso e con la materiale assenza  di  liquidita'  nelle  casse  del
Tesoriere rimane un mistero. 
    Il  comma  13,  il  cui  portato  e'  di  ancor  piu'   difficile
interpretazione, consente alle parti del contratto  di  tesoreria  di
rinegoziarne  i  termini  «ferma  restando  la  durata   inizialmente
prevista dei contratti stessi», e gli «ordinari rimedi  previsti  dal
codice», nonche' la possibilita',  per  le  parti,  di  recedere  dal
contratto. 
    Contestualmente  alla  conversione  sono  intervenute  le   prime
indicazioni applicative-attuative o -  sarebbe  forse  piu'  corretto
definirle - integrative. Si tratta:  della  circolare  del  Ministero
dell'economia e delle finanze 24 marzo 2012,  n.  11  e  del  decreto
ministeriale prot. 35041 del 27 aprile 2012. Questi atti sono  stati,
da  ultimo,  fatti  oggetto   di   gravame   innanzi   al   Tribunale
amministrativo per il Lazio. 
    In questa sede la Regione impugna le  disposizioni  normative  di
cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del  decreto-legge  n.  1/2012,
cosi' come risultante a seguito della conversione in  legge  avvenuta
con provvedimento 24 marzo 2012, n. 27, perche' poste  in  spregio  a
precisi valori costituzionali,  nei  termini  di  cui  alle  seguenti
considerazioni di diritto. 
    3.3 Prima  di  addentrarsi  in  medias  res,  urge  una  premessa
preliminare. 
    Sostiene Silvio Trentin  che  non  e'  diritto,  ma  una  pura  e
semplice manifestazione di forza materiale, cio' che non  corrisponde
a un agire razionale, che e' tale quando si dimostra coerente con  le
regole del gioco (1) . Ed aggiungeva, parlando dello Stato:  «E'  per
questo  motivo  che  quest'ultimo,  pena  il  rendersi  completamente
estraneo alla Societa', quindi  il  cessare  di  essere  Stato,  deve
sempre piu' organizzarsi come un ordine delle autonomie»  (2)  .  Non
puo' sorprendere, dunque, questa ulteriore annotazione, che da' conto
di cio' che nella storia d'Italia e' sempre accaduto, vale a dire che
appaiono  e  sono  istituzioni  gracili  lo   Stato-apparato   e   lo
Stato-ordinamento (3) : «Il problema eterno dello  Stato  e'  proprio
quello di insediare Io Stato nella Societa', e'  quello  di  impedire
che l'ordine di integrazione implichi la sparizione,  l'annientamento
degli ordini integrati» (4) .  Tra  tante  condizioni,  ve  n'e'  una
esemplare, che va rispettata: e' la clausola delle  clausole,  quella
su cui si fonda il  patto  costituzionale  -  il  foedus  -,  che  si
riassume  nel  noto  brocardo  pacta  sunt   servanda.   Se   ragioni
contingenti oppure sistemiche suggeriscono o addirittura impongono un
mutamento di aspetti essenziali delle regole del gioco  lo  si  fara'
dialogando, nel rispetto - come la Corte costituzionale ha  da  tempo
immemorabile affermato - del principio di leale  collaborazione.  Non
certo operando alla luce di un altrettanto noto adagio: l'Etat  c'est
moi, oltretutto svilito da un testo primitivo, quale  e'  l'art.  35,
co. 8, 9, 10 e 13 in particolare, del decreto-legge 24 gennaio  2012,
n. 1, dedicato a un vecchio arnese: la tesoreria unica. 
    Nell'esaminare il dettato normativo, il meno che  possa  accadere
e' che si riprendano massime tralatizie, ignorando  quel  che  le  ha
rese tali, secondo uno  schema  mentale  che  fa  della  fissita'  il
criterio ordinatore degli eventi: secondo, appunto,  una  prospettiva
collaudata, che vede  la  dottrina  «sempre  tarda  a  teorizzare  la
realta'» (5) .  Infatti,  quest'ultima  rappresenta  il  contenitore,
all'interno del quale e' stato calato dal Governo,  tra  l'altro,  il
disposto secondo  cui  «fino  al  31  dicembre  2014,  il  regime  di
tesoreria unica previsto dall'articolo 7 del  decreto  legislativo  7
agosto 1997, n. 297 e' sospeso», mentre «si applicano le disposizioni
di cui all'articolo 1 della legge  29  ottobre  1984,  n.  720  e  le
relative  norme  amministrative  di  attuazione»  (art.  35,  co.  8,
decreto-legge n. 1/2012). Dunque, un testo normativo fu in vigore dal
1984, uno ulteriore rinnovato dal 1997, quello  impugnato  dinanzi  a
codesta  Corte  e'  operante   dall'entrata   in   vigore   dell'atto
governativo avente forza di legge:  dall'anno  2012.  Successione  di
atti  normativi,   modificazione   di   regime   giuridici,   ritorno
all'antico, giustificato piu' o meno cosi': lo Stato  ha  bisogno  di
cassa. Di liquidita'. 
    Come un tempo e con le ragioni di allora? (6) . Il Giudice  delle
leggi, nel definire  nei  suoi  caratteri  essenziali  il  regime  di
tesoreria unica di cui alla  legge  n.  720/1984,  con  la  sent.  n.
132/1993 ha precisato che  «la  ratio  del  complesso  di  norme  ora
ricordato e' quella di consentire allo Stato,  in  riferimento  a  un
interesse  dell'intera  comunita'  nazionale,  il   controllo   della
liquidita' e  la  disciplina  dei  relativi  flussi  monetari  e,  in
particolare, di evitare che somme reperite dallo Stato attraverso  il
ricorso al mercato finanziario e comportanti, pertanto, il  pagamento
di onerosi interessi da  parte  dello  Stato  stesso,  finiscano  per
giacere  presso  i  tesorieri  regionali,  dando  cosi  vita  a   una
produzione  di  interessi  a  favore  delle  Regioni  scaturente,  in
definitiva, da erogazioni di somme prese a prestito dallo Stato».  Ed
ha aggiunto: «Questo  circolo  vizioso  delle  finanze  pubbliche  e'
impedito  dal  "sistema  della  tesoreria  unica",  il   quale,   per
riprendere valutazioni gia' espresse da questa Corte ..., e' ispirato
alla "esigenza  fondamentale  per  lo  Stato  (di)  limitare  l'onere
derivante dalla provvista anticipata dei fondi rispetto all'effettiva
capacita' di spesa degli enti (regionali)". Tale esigenza e le  norme
di legge che ad essa si ispirano sono, dunque, espressione del potere
di coordinamento della finanza regionale con quella nazionale e degli
enti locali, che  l'art.  119  della  Costituzione  attribuisce  allo
Stato». 
    Dunque, la finalita' era quella di evitare  un  «circolo  vizioso
delle finanze pubbliche» - un cortocircuito - in caso  di  «provvista
anticipata dei fondi rispetto all'effettiva capacita' di spesa» delle
Regioni, in un contesto di finanza  territoriale  caratterizzato  non
dall'autonomia del prelievo tributario, ma -  pure  la  Corte  lo  ha
ripetutamente riconosciuto, oltretutto dopo l'entrata in vigore della
legge  costituzionale  n.  3/2001  -  da  una  larga  prevalenza  dei
trasferimenti erariali. Del resto, e' scritto a  chiare  lettere  nei
lavori preparatori e nel testo della  legge  di  delega  n.  42/2009,
avente ad oggetto l'attuazione dell'art. 119 Cost. (7) .  L'interesse
tutelato era  quello  generale,  che  trovava  la  sua  piu'  limpida
giustificazione nella necessita' di non dissipare  risorse  pubbliche
pagando - a chiunque, fossero pure soggetti pubblici - interessi,  da
finanziare, comunque, attraverso la fiscalita'. Perche', c'e'  sempre
qualcuno che  paga  (8)  .  Si  era  in  presenza  di  interessi  non
frazionabili. 
    Condivisibili o meno che fossero quegli  assunti  (9)  (si  dira'
oltre in che termini comunque criticabili), e' fuori discussione  che
non possono essere - il discorso si fa rigoroso, perche'  impiega  le
categorie del ragionamento scientifico - trasferiti omisso medio  nel
2012. Tra il 1984 e il 2012 non solo sono passati poco  meno  di  una
trentina  d'anni;  non  solo   si   sono   verificati   i   mutamenti
istituzionali, economici e sociali ordinari; non solo e'  intervenuta
nel 2001 una riforma del Titolo V della Parte IL della  Costituzione;
si sono prodotti anche eventi che hanno interferito  sulle  relazioni
tra Stati e, all'interno degli Stati, tra i livelli di governo  ed  i
cittadini, soprattutto quando costoro sono contribuenti:  come  tali,
destinati a sobbarcarsi, nonostante  le  tante  partite  del  dare  e
dell'avere che spesso si traducono  in  partite  di  giro,  il  grave
fardello del  debito  pubblico,  ora  comunemente  denominato  debito
sovrano (10) . E' con  il  debito  sovrano  che  ha  a  che  fare  la
tesoreria unica dell'anno di grazia 2012. 
    Si tratta di un rilievo - decisivo, a parere della  difesa  della
Regione Veneto - che si puo' spiegare con solare limpidezza. 
    Da un lato, riprendendo una millimetrica annotazione  (11)  ,  si
deve essere ben consapevoli che  «i  motivi  per  cui  Mario  Draghi,
presidente della Bce, ha aperto il rubinetto  della  liquidita'  sono
molti. Innanzi tutto  bisognava  salvare  molte  banche  che  stavano
morendo per asfissia finanziaria: nessuno prestava piu' loro i  soldi
necessari per vivere. Tanti analisti sono convinti che senza  il  suo
intervento di emergenza,  il  2012  avrebbe  registrato  piu'  di  un
fallimento bancario in Europa. Inoltre  bisognava  creare  liquidita'
per favorire l'acquisto di titoli di Stato: rendimenti al 7% e  oltre
erano insostenibili per Paesi come l'Italia o la Spagna. Dato che  la
Bce piu' di tanto non poteva comprare BTp, ha dovuto  finanziarie  le
banche perche' lo facessero al posto suo. Questi due  obiettivi  sono
gia' stati raggiunti: lo dimostra l'euforia che c'e' sul mercato  dei
titoli di Stato e sulle banche. E' pero' il terzo  obiettivo,  quello
piu' strutturale, che ancora manca all'appello: la politica della Bce
raggiungera' veramente l'obiettivo solo  quando  fara'  ripartire  il
circuito  del  credito.   Insomma:   quando   i   soldi   arriveranno
all'economia reale. La logica della Bce  e'  questa:  le  imprese  in
Europa ottengono l'87% dei finanziamenti  in  banca  (contro  il  24%
negli Stati Uniti), per cui se gli istituti sono  impossibilitati  ad
erogare  credito,  le  imprese  muoiono.  Salvando  le  banche,   con
maxi-prestiti agevolati, la Bce spera  dunque  di  far  ripartire  il
motore della crescita. Che  questo  accada,  pero',  non  e'  affatto
scontato» (12) . 
    D'altro lato, non si deve dimenticare (13) che: «Dal 2007 al 2011
i contribuenti europei hanno  speso  duemila  miliardi  di  euro  per
salvare le banche,  l'equivalente  del  nostro  debito  pubblico.  In
Italia non e' stato speso un euro, grazie al nostro prudente  modello
di banca commerciale e all'attenta azione di vigilanza  svolta  dalla
Banca d'Italia. Se altrove gli Stati  hanno  salvato  le  banche,  in
Italia le banche hanno evitato il collasso del  debito  pubblico.  Di
cio' l'Italia deve essere orgogliosa» (14) . 
    Ergo: in estrema sintesi e con molte  approssimazioni,  anche  in
Italia, dopo il 2008 il debito pubblico si e' impennato a  tal  punto
da essere comunemente  definito  sovrano,  perche'  dello  Stato;  in
Italia, una quota-parte  significativa  e'  nelle  mani  del  sistema
bancario; i principali istituti di credito e  il  sistema  creditizio
nel suo insieme  sono  gravati,  in  termini  di  affidabilita',  dal
rischio-Paese,  che  ha  determinato   declassamenti   in   sede   di
attribuzione del rating, che hanno accresciuto il gia' enorme debito.
Tutto questo ed altro ancora,  unitamente  alla  crisi  economica  in
atto, ha posto all'ordine del giorno i temi della  liquidita'  e  del
rischio, che hanno inciso pesantemente sul  rapporto  banche-imprese,
cui non e' estraneo il settore pubblico, che acquisisce presso  terzi
beni, prestazioni e servizi, e non paga. O paga con tempi biblici. 
    Buon senso vorrebbe che le varie esigenze in  campo  fossero  tra
loro coordinate e che non si impartissero ordini  contraddittori.  Ad
esempio, alle banche, di acquistare titoli del debito pubblico  e  di
fare credito, ad un tempo, ed anche di  finanziare  le  imprese,  ben
sapendo che cio' e'  possibile  se  c'e'  liquidita'.  Ma  le  banche
usufruiscono di una liquidita' relativa, oltretutto perche' e'  erosa
da enormi sofferenze dei crediti e dal costo via via crescente  della
raccolta. Lapalissiano concludere che di tutto hanno bisogno le parti
che hanno stipulato il contratto di tesoreria, la Regione Veneto e il
tesoriere, meno che  di  vedersi  sottratte  le  risorse  finanziarie
depositate, che consentono a ciascuna di esse di  operare  impiegando
le  stesse  a  beneficio  dell'economia  reale.  La  Regione  paga  i
fornitori, il tesoriere accorda finanziamenti.  Da  questo  punto  di
vista, la centralizzazione del  comando  e  la  disponibilita'  della
cassa da parte dello Stato, se fa bene a quest'ultimo, fa  male  alla
Regione  e  all'economia  della  collettivita'   di   cui   e'   ente
esponenziale. 
    Tanto basta a rendere evidente quel che si e'  Premesso:  vale  a
dire che il quadro di riferimento cui la Corte deve  ricollegarsi  e'
caratterizzato da peculiarita' tali  da  renderlo  incomparabile  con
esperienze del passato. In ogni caso, vale la pena  di  ricordare,  a
mo' di rassegna, quel che si e' detto e scritto a caldo, a  proposito
del contenuto dell'art. 35, co. 8,  9  e  10,  del  decreto-legge  n.
1/2012: ad esempio, che, «come non si possono introdurre imposte  che
colpiscano in modo incoerente i contribuenti solo  perche'  serve  il
gettito, cosi' non si possono punire solo gli enti locali "colpevoli"
di avere liquidita' e di gestirla con contratti  locali  vantaggiosi»
(15) ; che si e' prodotto un «danno  morale  e  costituzionale»,  dal
momento che e' lesa l'autonomia finanziaria di enti  garantiti  dalla
legge fondamentale (16) ; che,  oltretutto,  simili  misure,  in  una
scala di efficacia che va da alto-medio-basso, hanno un grado «basso»
(17) ; che la marcia verso il federalismo  -  cosiddetto,  ad  essere
sinceri - e' «interrotta (forse per sempre) (18) . 
    L'Ecc.ma Corte consideri, infine, questo dato. Si e' osservato  -
in tempi lontani, con grande lucidita' - che, «proprio nei momenti di
grave crisi fiscale dello Stato, si registra la tendenza ad aumentare
l'entita' dei tributi propri degli enti minori», e cio'  «non  sempre
in termini  di  autonomia  tributaria»,  ove  «ad  una  riduzione  o,
comunque, ad un non  aumento  di  trasferimenti  dallo  stato  faccia
riscontro una fonte alternativa di risorse su cui l'ente locale possa
contare per finanziare le maggiori spese "obbligatorie"»  (19)  .  E'
cio' che si e' avverato, a causa della terribile crisi  in  atto.  La
singolarita' sta nel fatto che le risorse cosi' acquisite pure  dalle
Regioni - e dalla Regione Veneto, in particolare - vengono  assorbite
dallo Stato per essere dallo stesso impiegate: pronta cassa. In  modo
conforme a Costituzione?  Pare  proprio  di  no,  per  le  specifiche
ragioni che saranno a breve indicate. 
    3.4 L'incostituzionalita' del sistema di tesoreria unica  di  cui
alla legge n.  720/1984  rispetto,  in  generale,  all'assetto  delle
competenze   (sul   piano   legislativo,   amministrativo,   fiscale)
Stato-Regioni, voluto dalla novella costituzionale del 2001,  diviene
ancor  piu'  evidente  se  solo,  nella  prospettiva  diacronica  del
diritto, si considerano, sia pure brevemente, le tappe che  segnarono
la sua introduzione e i rilievi critici con cui fu stigmatizzata. 
    Con riguardo alle Regioni, infatti, la  tesoreria  unica  non  fu
imposta uno actu ed ex abrupto,  bensi'  in  via  progressiva,  quale
sorta  di   nodo   scorsoio   al   collo   dell'autonomia   regionale
costituzionalmente (sulla carta) garantita. 
    Dapprima fu la legge n. 629/1966 (recante Norme circa  la  tenuta
dei conti correnti con il  Tesoro):  introduceva  l'obbligo  per  «le
amministrazioni dello Stato, comprese quelle con ordinamento autonomo
e le gestioni speciali  dello  Stato,  di  tenere  le  disponibilita'
liquide in conti correnti con il Tesoro» (art. 1) e «per gli enti che
sotto qualsiasi forma beneficiano di contributi (...)  a  carico  del
bilancio dello Stato» di tenere le disponibilita'  liquide  in  conti
correnti con il Tesoro, «limitatamente all'ammontare  dei  contributi
medesimi» (art. 2). 
    Di  essa,  concordemente,  dottrina  e  giurisprudenza  esclusero
l'obbligatoria applicabilita' alle Regioni (20) , perche' «una simile
interpretazione  (che  avrebbe  condotto  a  ritenere  precluso  alle
Regioni di disporre di una propria tesoreria in cui fare affluire  le
somme liquide di propria pertinenza) confliggeva palesemente non solo
col comportamento di fatto tenuto  dalle  Regioni,  che  con  proprie
leggi  avevano  disciplinato  il  servizio  di  tesoreria  e  avevano
stipulato apposite convenzioni con istituti bancari, ma altresi'  con
l'art. 33 della legge statale n.  335  del  1976  sulla  contabilita'
delle Regioni, secondo il quale "la  legge  regionale  disciplina  il
servizio di tesoreria delle Regione"» (21) . 
    Di fatto, tuttavia, la situazione  era  di  segno  diametralmente
opposto a causa degli inviti «ripetuti e pressanti» del Governo  alle
Regioni «affinche' esse - anziche' chiedere il versamento di tutte le
entrate loro spettanti presso le tesorerie regionali - aprissero  dei
conti correnti (fruttiferi) con il tesoro nei quali tenere depositate
le somme assegnate dallo Stato» (22) . 
    Ne' manco' chi, tempestivamente, rilevasse  come  tali  richieste
governative tenessero «celate le  intenzioni  -  poi  rivelatesi  nei
fatti - di generalizzare indiscriminatamente i depositi  a  tutte  le
risorse derivanti dal bilancio dello Stato» (23) . 
    Altri si dolevano del fatto che era stata  compiuta  «in  realta'
una ricostruzione dell'attuale  situazione  nel  settore  in  termini
cosi' lontani dalla realta' effettiva  che  il  rischio  e'  che  gli
organi governativi  possano  trovarvi  una  insperata  legittimazione
proprio dalla permanenza dell'attuale stato di fatto» col rischio «di
perpetuare ancora una ambigua situazione di fatto anticostituzionale»
(24) . 
    Fu la legge di riforma del bilancio dello Stato (n. 468 del 1978)
a introdurre, con l'art. 31, l'imposizione dell'obbligo alle  Regioni
di tenere le somme trasferite dallo  Stato,  in  conti  correnti  non
vincolati con il  Tesoro;  la  legge  finanziaria  per  il  1981  (n.
119/1981), con l'art. 40,  a  disporre  l'imposizione  di  un  limite
quantitativo alle disponibilita' che le  Regioni  potevano  mantenere
presso i propri tesorieri; la disciplina successiva  ad  estendere  a
tutto il settore pubblico allargato il sistema della tesoreria  unica
(legge n. 720/1984, con gli interventi di modifica e integrazione che
ne seguirono). 
    A  cio'  si  aggiunsero   ulteriori   restrizioni   all'autonomia
finanziaria regionale. 
    Fra esse, segnatamente,  vanno  rammentate  le  seguenti:  a)  il
carattere infruttifero dei conti aperti con il Tesoro (a partire  dal
d.m. del Tesoro 11 aprile 1981 in G.U. 4 maggio 1981, n. 120);  b)  i
vincoli  relativi  alle  modalita'  e  ai  tempi  di  prelevamento  e
all'entita' delle somme prelevabili dalle Regioni dai conti  correnti
(a partire dall'art. 26 decreto-legge n.  786/1982,  convertito,  con
modificazioni, nella legge 26 febbraio 1982, n. 51); c) i margini  di
discrezionalita' del Ministero del Tesoro nell'erogazione delle somme
richieste (v. il  d.m.  e  il  decreto-legge  supra  citati);  d)  le
progressive contrazioni del quantitativo massimo imposto  all'entita'
delle disponibilita' liquide, fino ad arrivare al  3%  dell'ammontare
delle entrate previste  dal  bilancio  di  competenza  (la  legge  n.
730/1983 ridusse il limite dal 12% al 6%; la legge n. 720/1984 dal 6%
al 4%). 
    Gia' in allora gli argomenti usati da codesta Corte per «salvare»
dall'illegittimita' costituzionale la disciplina del  servizio  unico
di tesoreria furono di stampo contingente e  scarsamente  propensi  a
valorizzare i profili di  autonomia  riconosciuti  dalla  Carta  alle
Regioni e agli enti locali. 
    In tempi non sospetti, si ritenne di  concludere  che  si  poteva
«anche non mettere in discussione la soluzione legislativa e l'avallo
di legittimita' della Corte a patto che si dicesse  "con  franchezza"
che se la legge di contabilita' generale si deve intendere conforme a
Costituzione, allora significa, che il sistema finanziario  in  atto,
cosi' come si pretende delineato dal costituente, e'  quello  proprio
di un ordinamento unitario e non autonomistico"» (25) . 
    A maggior ragione oggi, le massime giurisprudenziali elaborate in
subiecta   materia   e   tralatizia   mente   ripetute   negli   anni
Ottanta/Novanta, perdono in toto  di  pertinenza,  depotenziate  come
sono,  oltre  che  dai  limiti  intrinseci  che  nel   prosieguo   si
evidenzieranno, dall'anacronismo da cui sono affette, a meno  di  non
voler assegnare loro un'efficacia dogmatica che non hanno. 
    In particolare, le istanze  governative  di  aprire  un  apposito
conto corrente  presso  la  tesoreria  centrale  vennero  considerate
legittime  «per  il  prevalente  motivo  che  il  tenore  degli  atti
impugnati [due telegrammi  ministeriali  contenenti  gli  inviti  dei
quali si e' detto] e' tale da  esprimere  un  invito,  piuttosto  che
un'imposizione»,  trattandosi  di  «direttive  non  vincolanti»   non
finalizzate a «disporre in via diretta ed imperativa l'istituzione di
un conto corrente per ciascuna Regione» (cfr. sent. n. 155 del 1977).
Sennonche',  cosi'  facendo,  si  celava,  dietro  a   qualificazioni
puramente formali, la realta' fattuale del blocco delle erogazioni da
parte dello Stato alle Regioni  fino  al  momento  della  sollecitata
apertura del conto corrente presso la tesoreria centrale  e,  quindi,
la reale vincolativita' dei cosiddetti inviti. 
    Ancora.  Si  fece  salvo  l'art.  31  della  legge  n.  468/1978,
nonostante realizzasse  «per  via  di  imposizione  autoritaria  quel
risultato che precedentemente il  Tesoro  aveva  perseguito  mediante
inviti  alle  Regioni»  (26)  ,  perche'  «l'obbligo  di  tenere   le
disponibilita' liquide in conti correnti non vincolati con il  tesoro
e' limitato ad assegnazioni, contributi e quant'altro provenienti dal
bilancio dello Stato, e non  tocca  in  alcun  modo  fondi  di  altra
provenienza» (sent. n. 162 del 1982), sebbene tutti sapessero che  la
finanza regionale era quasi esclusivamente  finanza  derivata,  cioe'
finanza di trasferimento dal  bilancio  dello  Stato,  con  l'effetto
conseguente che il limite imposto riguardava, in  realta',  la  quasi
totalita' delle risorse regionali. 
    Si giustifico' l'art. 31 della legge n.  468/1978  in  forza  del
potere  statale  di  «coordinare  la  finanza  regionale  con  quella
statale» (art. 119 Cost.) in funzione di indispensabili  economie  di
spesa (sent. n. 162 del 1982, confermata dalle sentenze  successive).
Un tanto, tuttavia,  senza  nel  contempo  dichiarare  la  criticita'
implicita nella premessa dell'argomento usato, vale a dire che, cosi'
inteso, il potere di coordinamento della finanza pubblica  veniva  (e
viene) concepito «come funzione organizzativa a se',  riservata  allo
Stato, esercitabile unilateralmente  e  suscettibile  di  sovrapporsi
all'organizzazione e al funzionamento  dei  poteri  locali  delineati
nella Costituzione», finendo, quindi, col costituire  «in  ogni  caso
una ragione di potenziale e  permanente  compressione  dell'autonomia
finanziaria locale, il cui contenuto  non  potrebbe  essere  valutato
alla stregua di parametri costituzionali sostanziali  predeterminati,
bensi' definito lungo la linea variabile delle  scelte  discrezionali
operate di volta in volta dal legislatore» con l'avallo  del  Giudice
delle leggi (27) . 
    Si dichiaro' la legittimita' anche dell'art. 40  della  legge  n.
119/1981 in quanto espressione del potere  riservato  allo  Stato  di
«disciplina del  credito,  strettamente  (connesso)  alla  stabilita'
della moneta e,  quindi,  ad  un  interesse  che  travalica  l'ambito
regionale coinvolgendo la comunita'  nazionale»  (sent.  n.  162  del
1982). Ma., al contrario, «che la disciplina  in  questione  riguardi
l'attivita' creditizia, e non piuttosto la contabilita'  regionale  e
la  gestione   della   cassa   regionale,   non   sembra   facilmente
sostenibile»; senza dire che «il limite ai  prelievi,  non  correlato
all'effettivo fabbisogno di cassa, conduce non  tanto  a  regolare  i
flussi monetari dallo Stato alle Regioni, quanto  a  interrompere  in
modo anomalo il nesso necessario fra  attribuzione,  da  parte  dello
Stato, di determinate risorse alle Regioni, ed effettiva possibilita'
per quest'ultime di spendere tali risorse secondo i fini e nei  tempi
autonomamente prescelti, e nell'osservanza dei propri bilanci e delle
procedure contabili stabilite dalle leggi» (28) . 
    Non si ritenne incostituzionale neppure la previsione che  voleva
infruttiferi i conti presso il tesoriere centrale perche'  «anche  se
ne deriva  una  minore  redditivita'  delle  somme  depositate  nelle
tesorerie dello Stato rispetto a quella  che  si  avrebbe  presso  le
aziende di credito», e' questa «una  conseguenza  di  fatto  che  non
investe   aspetti   costituzionalmente   tutelati,   non    incidendo
sull'autonomia finanziaria delle Regioni» (sent.  n.  243  del  1985;
nello stesso senso v. anche le sentenze n. 162 del 1982 e n. 307  del
1983),  assumendo,  evidentemente,  l'autonomia  regionale   in   una
accezione puramente formale. 
    Il commento generalizzato (29) fu che  «a  questo  punto,  sembra
veramente  difficile  negare  che  -  passo  dopo  passo  -  i  conti
"obbligatori"  delle  Regioni  presso  la  tesoreria  statale   siano
divenuti (se non  lo  sono  stati  fin  dall'origine)  quell'"anomalo
strumento di controllo  sulla  gestione  finanziaria  regionale"  nel
quale secondo la  Corte  e'  "essenziale"  che  essi  invece  non  si
trasformino» (sent. n. 94 del 1981). 
    E' fin ovvio che, tale risultato e',  a  fortiori,  inaccettabile
oggi. 
    3.5 Considerato ut supra come il testo  e  contesto  del  sistema
unico di tesoreria siano  indubbiamente,  radicalmente  diversi  oggi
rispetto a tre decenni fa e rammentati i profili di  incompatibilita'
con la Costituzione che gia' affliggevano la medesima disciplina,  e'
opportuno ora passare a  denunciare  le  specifiche  doglianze  delle
disposizioni impugnate rispetto al testo costituzionale novellato nel
2001 in senso (sedicentemente) federalistico. 
    Macroscopica e' quella che ha  come  parametro  il  principio  di
ragionevolezza di cui all'art. 3 Cost. 
    Infatti, delle due l'una. 
    O le disposizioni normative impugnate perseguono  l'obiettivo  di
attribuire allo Stato liquidita' di cui disporre: ma, in questo modo,
e'  evidente  che  esse   lederebbero   patentemente   le   autonomie
territoriali costituzionalmente sancite e tutelate, privandole  delle
risorse loro proprie. 
    O  la  disciplina  gravata,  dovendosi  escludere  che  le  somme
riversate nelle casse centrali possano, per cio' solo, entrare  nella
libera disponibilita' dello Stato, e' priva di  senso,  assolutamente
irragionevole e contraddittoria. E cio' dicasi, in particolare: 
        a) rispetto al preteso scopo di tutelare  l'unita'  economica
della Repubblica nella particolare situazione  di  crisi  del  debito
sovrano, anche perche' si tratta (come si e' detto e si dira') di una
novella che,  lungi  dal  consentire  profitti,  genera  sprechi  (ad
esempio con riguardo alla minore redditivita' sulle somme riversate),
non preventivamente quantificabili ma  certamente  significativi;  b)
anche laddove si riconoscesse la finalita' di rendere piu' chiaro  il
sistema di contabilita'  locale,  dal  momento  che  l'intervento  si
limita  all'accentramento  delle  tesorerie,  mentre  altri  (e  piu'
adeguati) avrebbero potuto e dovuto essere gli interventi del Governo
per ottenere un risultato in questo senso (ad esempio perseguendo  in
concreto l'obiettivo di rendere  uniformi  e  trasparenti  i  bilanci
degli enti territoriali, previsto all'art. 2, co. 2, lett.  h)  della
legge n.  42/09);  c)  rispetto  alla  posizione  degli  istituti  di
credito, che, da un lato, sono richiesti di finanziare le imprese, e,
dall'altro, sono privati della liquidita' necessaria. 
    Proprio la prima alternativa sembrerebbe essere l'obiettivo reale
perseguito dallo Stato, se e' vero, come si  evince  dalla  relazione
governativa  al  testo  normativo,  che  la  «maggior   giacenza   di
liquidita' si tradurra' in una minore emissione di titoli del  debito
pubblico», stimando un risparmio complessivo «per il  bilancio  dello
Stato» pari a 320 milioni di euro nel 2012, 150 milioni di  euro  nel
2013 e 150 milioni del 2014 e che «parte di questi  risparmi  saranno
utilizzati per... l'estinzioni di crediti maturati nei confronti  dei
Ministeri per spese  relative  a  consumi  intermedi»  (estratto  dal
Dossier della Camera dei deputati). Altrimenti detto, il  Governo  si
appropria delle risorse degli  enti  locali  al  fine  di  estinguere
debiti per consumi intermedi dei Ministeri! 
    Le disposizioni normative impugnate, inoltre, sono  assolutamente
irragionevoli nella parte in cui non prevedono una seria e completa -
seppur essenziale - disciplina di transizione  e  di  attuazione  dei
precetti in esse contenuti. Le censure sul punto hanno prettamente  a
riguardo il novellato comma 10 dell'art. 35. In esso  il  legislatore
statale   riconosce   l'assoluta   mancanza   della   disciplina   di
adeguamento, tanto e' vero che il disposto impugnato stabilisce che i
tesorieri  provvedano  a  conformarsi  al  nuovo  sistema  dopo  aver
effettuato   il   secondo    versamento    (profilo    di    assoluta
irragionevolezza della  previsione  normativa),  facendo  nel  mentre
applicazione del decreto legislativo n. 279 del 1997. 
    Ora, non si' puo', seriamente, pensare che ad  attuare  l'imposto
ritorno al sistema unico di tesoreria possano  soccorrere  i  decreti
adottati a cavallo degli anni  Ottanta,  in  quanto  gia'  in  allora
criticati  per  la  loro   dubbia   compatibilita'   con   il   testo
costituzionale e  certamente  contrari  al  sistema  delle  autonomie
costituzionalmente previsto dopo il 2001. Per non parlare, poi, della
loro inutilizzabilita' pratica in concreto, dal momento che procedure
e strutture del passato non  sono  oggi  facilmente  e,  soprattutto,
immediatamente replicabili. 
    L'irragionevolezza della disciplina sotto questo profilo e' tanto
piu' evidente laddove,  proprio  a  cagione  della  sua  lacunosita',
finisce indebitamente con il consentire a soggetti assolutamente  non
legittimati allo scopo, quale l'associazione  di  categoria  ABI,  di
intervenire  in  supplenza,  dettando  previsioni  che  -  come  gia'
rilevato - non solo non sono contenute  nel  decreto-legge,  ma  anzi
sono  ad   esso   contrarie   e/o   ne   aggravano   l'illegittimita'
costituzionale. 
    Gli effetti di una disciplina siffatta sono e saranno  quelli  di
ritardare, se non anche limitare, l'accesso di Regioni ed enti locali
alle proprie risorse. La Corte, tuttavia, ha gia' in passato chiarito
che  «per  non  intralciare   il   ritmo   delle   spese   regionali,
compromettendo   l'indispensabile   velocita'   di    erogazione    e
costringendo le Regioni a far ricorso  -  in  via  alternativa  -  ad
indebitamenti sia  pure  di  breve  periodo,  occorre  pero'  che  la
reintegrazione delle quote dei proventi regionali depositabili presso
le aziende di credito sia resa possibile  continuamente  e  nei  modi
piu' solleciti, affinche' si possa far fronte ai pagamenti imprevisti
senza intaccare gravemente od esaurire del tutto le disponibilita' in
questione» (Corte cost., sent. n. 244 del 1985). 
    Per non dire della possibilita' che si  generino  veri  e  propri
vuoti di cassa, quando codesta  Corte  ha  da  sempre  tenuto  «ferma
l'esigenza (...) che i rapporti  tra  le  tesorerie  regionali  e  le
sezioni di tesoreria provinciale dello Stato siano regolati  in  modo
tale da escludere il pericolo  di  improvvisi  vuoti  di  cassa,  che
pregiudicherebbero   il   buon   andamento   dell'amministrazione   e
paradossalmente frusterebbero gli intenti cui mira la legge  n.  720,
imponendo alle Regioni di  ricorrere  ad  onerose  anticipazioni  per
fronteggiare le spese indilazionabili» (Corte cost., sent. n. 243 del
1985). 
    E'   evidente,   poi,   che   le   sopra   citate    lacunosita',
irragionevolezza  e  inadeguatezza  agli   scopi   dichiarati   della
disciplina impugnata sono destinate fatalmente a tradursi in ritardi,
disfunzioni, disagi nella concreta disponibilita'  delle  risorse  e,
dunque, nell'erogazione dei servizi, in aperta violazione del  canone
di buona amministrazione di cui all'art. 97 Cost. 
    3.6 La Regione Veneto censura, inoltre, le disposizioni normative
di cui all'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13 del decreto-legge  n.  1/2012
per violazione dell'art. 41 Cost.,  secondo  il  quale  «l'iniziativa
economica privata e' libera». 
    Come gia' anticipato, mentre in origine il sistema  di  tesoreria
unica  era  assicurato  dalla  Banca  d'Italia  (legge  n.   720/84),
successivamente (in  forza  del  decreto-legislativo  n.  279/97)  si
consenti' a Regioni ed enti locali (oltre ad altri enti enumerati) di
detenere le proprie risorse presso  tesorieri  scelti  con  gara,  in
omaggio, tra l'altro,  al  principio  di  tutela  della  concorrenza.
Principio che, dunque, pure, deve considerarsi leso dalla  previsione
di nuovo accentramento della tesoreria presso l'unica Banca d'Italia. 
    La Regione, quindi, come pure  gli  enti  locali  di  cui  si  fa
tramite, ha in essere un contratto di tesoreria con  un  istituto  di
credito, attivato previa  indizione  di  una  procedura  ad  evidenza
pubblica, secondo regole comunitarie,  le  cui  clausole  sono  state
pattiziamente convenute sulla base di scelte  rimesse  alla  autonoma
determinazione delle parti ed eseguite, fino ad oggi, in omaggio alla
regola elementare di civilta' per cui pacta sunt servanda. 
    Il legislatore del decreto impugnato si  e'  inserito  in  questo
rapporto contrattuale  di  diritto  privato,  in  modo  improvvido  e
autoritativo,  in  assenza  di  presupposti   facoltizzanti.   Manca,
infatti, la ragione  di  «utilita'  sociale»  o  -  per  meglio  dire
utilizzando le parole di codesta Corte (v. Corte cost., sent.  n.  31
del 2011) - «economico-sociale», che, ai sensi dell'art. 41, comma 2,
Cost. puo' autorizzare un  intervento  legislativo  limitativo  della
liberta' contrattuale. Per  le  argomentazioni  gia'  articolate,  in
effetti, tale presupposto legittimante non puo'  essere  riconosciuto
nell'esigenza - illegittima e per  molti  versi  irragionevole  -  di
drenare risorse dalle autonomie territoriali e dalle banche verso  lo
Stato. 
    L'incostituzionalita' e' - se possibile - ancora piu' evidente  e
grave per la Regione ricorrente ove si consideri  che  la  disciplina
impugnata ha l'effetto ultimo di decretare  l'inesorabile  estinzione
del rapporto in essere con il tesoriere locale, posto che il relativo
contratto stabilisce nel 31 dicembre 2013 la sua  naturale  scadenza.
Resta, comunque, sul punto, l'illegittimita'  della  disposizione  di
cui al comma 13 dell'art. 35, con la  quale  il  legislatore  statale
consente alle parti del contratto  di  tesoreria  di  rinegoziarne  i
termini «ferma restando la durata inizialmente prevista dei contratti
stessi», e gli «ordinari rimedi  previsti  dal  codice»,  nonche'  la
possibilita',  per  le  parti,  di  recedere  dal  contratto.   Quale
significato abbia il disposto citato non e'  chiaro  da  comprendere;
l'effetto sembra, tuttavia, essere nuovamente un intervento «a  gambe
tese» sul prodotto dell'autonomia contrattuale delle  parti,  la  cui
posizione, tra l'altro, a seguito dei versamenti presso la  tesoreria
unica, non e' piu' paritaria: Regioni ed enti territoriali,  infatti,
sono caduti in una posizione di assoluta  inferiorita'  e  debolezza,
che incidera' certo negativamente sulle negoziazioni rese possibili. 
    Dal lamentato sbilanciamento contrattuale indotto dal complessivo
impianto  normativa  delle   disposizioni   impugnate   discende   la
violazione, in primo luogo,  degli  articoli  41  e  119  Cost.,  dal
momento  che  la  predetta  disposizione   incide   e   pretende   di
condizionare illegittimamente l'autonomia contrattuale della  Regione
relativamente   alla   gestione   delle   proprie   risorse   siccome
costituzionalmente garantita. In secondo luogo, e'  evidente  che  la
facolta' della rinegoziazione, considerata ex parte  privata,  ha  la
mera funzione (o rappresenta, comunque, la concreta opportunita')  di
compensare  il   periodo   contrattuale   «perso»   a   causa   della
reintroduzione della  tesoreria  unica  con  l'introduzione  di  piu'
favorevoli condizioni negoziali, circostanza, quest'ultima,  che,  ex
parte  publica,  si  traduce   nell'ulteriore   danno   dell'assoluta
incertezza  di  poter  nuovamente  godere  del  contratto  in  allora
stipulato, se non, addirittura, nella certezza  della  reformatio  in
pejus. 
    Ne' si puo' trascurare, tanto meno, che il comma  9  pretende  di
incidere anche sugli «eventuali investimenti finanziari»  degli  enti
smobilizzandoli, prescindendo integralmente dalle scelte compiute  da
questi  ultimi  nell'esercizio  della  propria  liberta'   economica,
violata anche  nella  parte  in  cui,  privilegiando  arbitrariamente
determinate forme di investimento (id est quelle in titoli di  Stato)
rispetto  ad  altre,  pretermette  ogni  autonoma  determinazione   a
riguardo. 
    Senza dire, infine, che, nel quadro dell'attuale gravissima crisi
economica, la sottrazione di liquidita' dalle casse degli istituti di
credito  tesorieri  e'  di  ostacolo   all'esercizio   della   libera
iniziativa economica  delle  banche  e  alla  loro  forza  propulsiva
rispetto al sistema delle imprese. 
    3.7  La  disciplina  legislativa  impugnata  e'  -  per  espressa
previsione normativa  -  posta  «ai  fini  della  tutela  dell'unita'
economica  della  Repubblica  e  del  coordinamento   della   finanza
pubblica». La  materia  cui  afferisce,  dunque,  e'  proprio  quella
dell'«armonizzazione dei bilanci pubblici e (del) coordinamento della
finanza pubblica e del sistema  tributario»,  di  cui  all'art.  117,
comma 3, Cost. 
    Del resto la stessa dottrina formatasi sulla giurisprudenza della
Corte antecedente la riforma del 2001 gia' non metteva in dubbio  che
le previsioni di legge aventi ad  oggetto  il  sistema  di  tesoreria
dovessero ascriversi proprio al citato coordinamento (30) . 
    Come noto,  si  tratta  di  un  ambito  materiale  di  competenza
legislativa concorrente, in relazione al quale «spetta  alle  Regioni
la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione dei principi
fondamentali, riservata alla legislazione  dello  Stato»  (art.  117,
comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della  legge  n.  42/2009,
che  impone  il  «rispetto  della   ripartizione   delle   competenze
legislative fra Stato  e  Regioni  in  tema  di  coordinamento  della
finanza pubblica e del sistema tributario»). 
    Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa  a
dettare  principi  fondamentali  di   coordinamento   della   finanza
pubblica, «l'apprezzamento della  legittimita'  costituzionale  della
disposizione impugnata comporta, per un verso, l'attribuzione ad essa
della preminente finalita' di contenimento razionale della  spesa  e,
per altro verso, la verifica che, nel perseguire siffatta  finalita',
il legislatore statale non abbia prodotto  norme  di  dettaglio»  (v.
Corte cost., sent. n. 40 del 2010). 
    Quanto al primo profilo, gia' si e' piu' volte  evidenziato  come
la ratio del provvedimento  impugnato  debba  con  ogni  probabilita'
ritrovarsi nella necessita' - addirittura esplicitata nel dossier  di
documentazione della Camera - di raccogliere  liquidita'  e  come  la
stessa non possa dirsi conforme  a  Costituzione,  non  solo  perche'
lesiva delle prerogative delle autonomie (come si sta spiegando),  ma
anche  in  quanto  non  legittimata  da  alcun   interesse   pubblico
superiore.  Quanto  all'idoneita'  della  misura   gravata   rispetto
all'eventuale fine di ottenere risparmi di spesa,  poi,  pure  si  e'
gia' argomentato:  lungi  dal  rispondere  agli  obiettivi,  essa  si
riverberera' in disfunzioni, sprechi e disagi, antitetici rispetto al
principio di buon andamento e di economicita'. 
    Con riferimento alla natura delle disposizioni impugnate, invece,
e' evidente che esse non si limitano a porre principi, ossia «criteri
ed obiettivi» che lascino alle  Regioni  un  sufficiente  «spazio  di
manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da utilizzare
per raggiungere detti obiettivi» (cosi' in Corte cost., sentt. n. 340
del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401 del 2007),  ma  interviene
con  previsioni  specifiche  e  sedicentemente  autoapplicative   che
incidono sull'autonomia e nei confronti delle quali l'unica  reazione
puo' essere il ricorso alla Corte. 
    E a destituire di fondamento l'assunto davvero non sembra potersi
invocare la «generosa» giurisprudenza di  codesta  Ecc.ma  Corte  con
riferimento alla qualificazione in  termini  di  principio  di  norme
inequivocabilmente dettagliate (per tutte, sent.  n.  16  del  2010),
perche', nel caso di specie, certo non si puo' ignorare il fatto che,
uno actu, le disposizioni del  decreto-legge  de  quo  pretendono  di
sovrapporsi al  precedente  (necessario)  concorso  della  disciplina
nazionale  e  regionale  sul   sistema   delle   tesorerie   (decreto
legislativo n. 279/97 e legge regionale Veneto n. 39/01). 
    Assume valenza addirittura paradigmatica della presente doglianza
il  comma   9   del   citato   decreto,   laddove,   pretendendo   la
smobilizzazione degli «eventuali investimenti finanziari», demanda ad
un decreto ministeriale attuativo l'integrazione della disciplina ivi
posta,  cosa  da  sottrarre  a  riguardo  ogni  margine   valutativo,
normativo alle Regioni. Un tanto,  ovviamente,  anche  in  violazione
dell'art. 117, comma 6, Cost. 
    3.8 L'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge  n.  1/2012
viola  l'autonomia  amministrativa  regionale  e  degli  enti  locali
sancita  dall'art.  118  Cost.,  dal  momento  che  sottrae  loro  la
possibilita' di gestire in modo  libero  e  responsabile  il  proprio
servizio di tesoreria. 
    La disciplina impugnata, inoltre, genera un vulnus  all'autonomia
amministrativa regionale e degli  enti  territoriali  minori  proprio
perche' - come gia' fatto rilevare  -  diminuisce  e  rende  -  nella
migliore delle ipotesi - piu' difficoltoso l'accesso  di  Regioni  ed
enti locali alle risorse proprie necessarie per svolgere le  funzioni
amministrative loro attribuite dalla Costituzione e li  costringe  ad
una  sicura  perdita  patrimoniale  (rispetto  agli  interessi  sulle
giacenze garantiti dai propri tesorieri). 
    Non puo' sottacersi, infine,  la  contrarieta'  della  disciplina
censurata rispetto ai principi di sussidiarieta', differenziazione ed
adeguatezza sanciti  all'art.  118  Cost.  Essi,  infatti,  non  solo
consentono ma impongono che alle autonomie piu' vicine  al  cittadino
sia lasciata la gestione delle risorse raccolte da o comunque per  la
collettivita'  locale  per  il  tramite  dei  servizi  di   tesoreria
decentrati  e  che  siano   valutati   in   concreto   i   rendimenti
istituzionali, che,  proprio  con  riferimento  alla  tesoreria,  per
altro, in non poche realta' (venete ma non solo) sono stati piu'  che
buoni. 
    3.9 Grave - se possibile piu' di  ogni  altra  -  e'  la  lesione
dell'«autonomia finanziaria di entrata e di  spesa»  che  l'art.  119
Cost.   riconosce,   nell'ordine,   a   Comuni,   Province,    Citta'
metropolitane e Regioni. 
    Si  e'  gia'  ricordato  come  il  sistema  di  tesoreria  unica,
istituito  con  legge  n.  720/84   (vigente   un   diverso   riparto
costituzionale di competenze sul territorio) e a cui oggi si vorrebbe
ritornare, si giustificasse solo - e non senza qualche perlessita'  -
in presenza di una finanza regionale  alimentata,  in  larghissima  e
prevalente misura, da trasferimenti statali. 
    Nel  frattempo,  pero',  e'  mutato,  radicalmente,   come   gia'
osservato, a tacer d'altro, il quadro costituzionale e  istituzionale
di riferimento. 
    Oggi, le Regioni hanno (e si  reggono  su)  entrate  proprie  (da
intedersi, come noto, in un'accezione ampia, assimilabile a quella  a
suo tempo riconosciuta per la Provincia di Trento, cfr. Corte  cost.,
sent. n. 62 del 1987).  Una  parte  consistente  di  esse  deriva  da
tributi propri regionali, dovendosi qualificare per tali tutti quelli
previsti all'art. 7 della legge n. 42/2009 (che proprio all'art.  119
cost. da' attuazione). E cio' senza considerare che, gia' prima della
riforma costituzionale del 2001, la  Corte  aveva  riconosciuto  «pur
sempre  di  pertinenza  regionale»  anche  le  risorse  semplicemente
trasferite alle Regioni dallo Stato (v. Corte cost., sent. n. 132 del
1993). 
    E' evidente, dunque, che le risorse interessate dalle  previsioni
del  «decreto  Monti»  impugnate   provengono   dalle   collettivita'
regionali, corrispondono cioe' alla «capacita'  fiscale»  (art.  119,
comma 3, Cost.) di chi abita e lavora nel Veneto,  e  sono  destinate
alla responsabilita' gestoria degli enti territoriali che  di  questa
comunita' sono esponenziali. 
    Tanto premesso, e' evidente che, nel 2012, la scelta di distrarre
risorse finanziarie dalle  tesorerie  decentrate  per  riversarle  in
quella  statale  si  pone  in   netto   contrasto   con   l'autonomia
costituzionalmente garantita agli enti che se ne vedono spogliati. 
    Lesa e', anzitutto,  sotto  molteplici  profili,  l'autonomia  di
entrata. 
    In primo luogo perche' il provvedimento governativo  pretende  di
sottrarre al sistema di tesoreria delle Regioni  le  entrate  proprie
delle Regioni, secondo l'accezione di cui sopra, mentre, ad  esempio,
gia' la giurisprudenza risalente formatasi in  materia  di  tesoreria
unica  escludeva  dai  riversamenti  presso  la  stessa  le  «entrate
acquisite direttamente dalle Regioni» (cfr. Corte cost., sent. n.  94
del 1981). 
    In secondo luogo perche' incide sull'autonomia stessa  di  creare
entrate. Si allude, in particolare, al  fatto  che  dall'applicazione
delle disposizioni impugnate deriva la perdita, per Regioni  ed  enti
locali,   dei   significativi   risparmi    e    vantaggi    generati
dall'esecuzione dei contratti negoziati  con  i  propri  tesorieri  e
delle relative maggiori entrate (per esempio sotto forma di  maggiori
interessi). Ne' si dica che la perdita di redditivita' conseguente al
riversamento in tesoreria unica sia un «effetto privo di implicazioni
costituzionali» (per tutte Corte cost., sent. n. 162  del  1982),  in
quanto tale assunto, gia' a suo tempo  criticabile  e  criticato,  e'
oggi privo di ogni pertinenza e attualita'.  L'autonomia  finanziaria
riconosciuta e sancita  dalla  novellati  Costituzione  e'  anzitutto
un'autonomia sul reperimento di risorse  e  tali  sono  anche  quelle
derivanti da interessi maturati sulla disponibilita' del denaro. 
    Violata e' pure l'autonomia finanziaria di spesa. 
    A causa delle disposizioni impugnate, infatti, il controllo sulla
gestione finanziaria regionale viene di fatto «manovrato in  modo  da
precludere od ostacolare la  disponibilita'  delle  somme  occorrenti
alle Regioni stesse per l'adempimento dei loro compiti istituzionali,
nelle orme nelle misure e nei  temei  variamente  indicati  dalla  le
islazione statale», non diversamente da quanto accadeva nel  passato,
quando inesorabilmente l'accentramento del deposito  delle  somme  si
traduceva in indebite forme  ingerenza  nell'an,  nel  quando  e  nel
quomodo della concreta disponibilita' delle somme depositate. Effetto
quest'ultimo gia' stigmatizzato dalla Corte fin dagli anni Settanta e
non piu' tollerabile oggi (si rinvia a Corte cost., sent. n. 155  del
1977, ma anche alla sent. n. 162 del 1982). 
    Parimenti lesiva dell'autonomia finanziaria e' la previsione,  di
cui al  comma  9,  che  stabilisce  che  gli  eventuali  investimenti
finanziari individuati con decreto ministeriale (da emanare entro  il
30 aprile), ad eccezione  di  quelli  in  titoli  di  Stato,  saranno
smobilizzati. Un tanto per l'elementare ragione che essa incide sulla
pianificazione  finanziaria  degli   enti,   alterando   in   maniera
definitiva le scelte di spesa  da  questi  compiute  (per  altro  con
ricadute  gravissime  sull'economia  reale  e  l'affidabilita'  della
pubblica amministrazione) e creando un'indebita poziorita' tra  forme
di investimento, privilegiando quello in titoli di Stato. 
    Alla luce, infine, dell'art. 2, comma 2, della legge  n.  42  del
2009, le  disposizioni  contraddicono  palesemente,  i  principi  di:
«trasparenza  del  prelievo»;  «efficienza  nell'amministrazione  dei
tributi» (lett. c); «tendenziale correlazione tra prelievo fiscale  e
beneficio connesso alle funzioni esercitate sul territorio in modo da
favorire  la  corrispondenza  tra   responsabilita'   finanziaria   e
amministrativa» (lett. p); «trasparenza ed efficacia delle  decisioni
di entrata e di spesa, rivolte a garantire l'effettiva attuazione dei
principi di efficacia, efficienza  ed  economicita'  .»  (lett.  dd);
«tendenziale corrispondenza tra autonomia impositiva e  autonomia  di
gestione delle proprie risorse  umane  e  strumentali.»  (lett.  ii);
«certezza delle  risorse  e  stabilita'  tendenziale  del  quadro  di
finanziamento, in misura  corrispondente  alle  funzioni  attribuite»
(lett. ll). 
    3.10 Una delle violazioni piu'  gravi  compiute  dal  legislatore
statale e', poi, quella perpetrata nei  confronti  del  principio  di
leale collaborazione. 
    Sembra incredibile che  un  intervento  normativo  della  portata
descritta sopra, anche e soprattutto per le  autonomie  territoriali,
sia stato adottato e sia entrato in vigore senza che alcuna forma  di
dialogo o raccordo sia stata cercata e posta in  essere  quanto  meno
con le Regioni. 
    La verita' di quanto appena denunciato e' confermata  dal  tenore
della   premessa   del   decreto-legge   e   della   sua    relazione
accompagnatoria, che ignorano completamente il problema. 
    E non sembra si tratti di una svista, in quanto  la  presenza  di
una volonta' consapevole e determinata ad evitare qualunque forma  di
rapporto e collaborazione con le Regioni emerge proprio  da  come  la
norma  e'  congegnata.  Il  riferimento  e',  nello  specifico,  alle
previsioni di cui al comma 9, il quale disciplina - in modo del tutto
unilaterale e  lacunoso  -  il  materiale  riversamento  delle  somme
affidate ai tesorieri e cassieri degli enti  nella  tesoreria  unica.
Esse non rivolge il suo dictat alle Regioni, come sarebbe stato  piu'
ragionevole e opportuno aspettarsi, ma ordina a tesorieri e  cassieri
di trasferire le risorse. 
    Davvero e' mancata quella «lealta' istituzionale»  di  cui  parla
l'art. 2,  comma  2,  lett.  b),  della  legge  n.  42/2009,  che  ha
l'ambizione di dare attuazione all'art. 119 della Costituzione. 
    3.11 Le disposizioni  normative  impugnate  non  possono  passare
indenni il vaglio di legittimita' costituzionale richiesto a  codesta
Corte neppure in forza del dettato dell'art. 120 Cost.,  che  -  come
noto - disciplina i casi e i modi in cui il Governo puo'  sostituirsi
alle Regioni, alle Citta' metropolitane, alle Province e ai Comuni. 
    Di  legittimo  intervento  sostitutivo  non  puo'  parlarsi,  con
riferimento alla fattispecie concreta in  esame,  in  quanto:  a)  ne
mancano i presupposti; b) e' violato il principio di  sussidiarieta';
c) completamente negletto e' il principio di leale collaborazione; d)
e' assente il carattere di proporzionalita' dell'intervento  rispetto
alle finalita' perseguite,  che,  oltre  ad  essere  richiesto  dalla
giurisprudenza costituzionale, e' sancito all'art. 8 della  legge  n.
131/2003. 
    Quanto al punto sub a), non puo' certo ritenersi  sufficiente  ad
integrare il presupposto tassativamente richiesto dalla  Costituzione
della  tutela  dell'«unita'  economica»  della  Repubblica   l'averne
evocato l'espressione nell'incipit della disciplina  impugnata  (art.
35, comma 8). Le considerazioni gia'  svolte,  infatti,  hanno  -  si
crede -  abbondantemente  chiarito  che  la  disciplina  oggetto  del
sindacato di codesta Corte non ha e non puo' raggiungere questo  fine
anche  perche'  assolutamente  inidonea   allo   scopo   e,   dunque,
sproporzionata (assente e', quindi, anche il requisito  di  cui  alla
lett. d). 
    Infatti, delle due l'una: i) o  essa  e'  finalizzata  a  drenare
liquidita' nelle casse dello Stato e allora e'  incostituzionale  per
lesione  delle  autonomie  o,  comunque,  irragionevole  perche'  per
soddisfare esigenze di quest'ultimo piega enti territoriali (che,  al
pari con questo, compongono la Repubblica da preservare),  banche  ed
imprese (che finanziano e rappresentano l'economia reale,  l'ossigeno
di cui il sistema ha bisogno) e infine il sistema - Paese globalmente
inteso; ii) o e' totalmente priva di senso perche' assegna allo Stato
risorse inutilizzabili  spezzando  il  nesso  di  corrispondenza  tra
autonomia di prelievo e autonomia di gestione. 
    Quanto al mancato rispetto del principio  di  sussidiarieta'  (v.
lett. b), pure si e' scritto. E', infatti,  incomprensibile  come  un
intervento che accentra il sistema di tesoreria presso lo Stato possa
dirsi conforme al disegno costituzionale sul punto,  che  chiaramente
non si limita a promuovere (art. 5) e garantire (artt. 117, 118 e 119
Cost., in specie) le autonomie e la differenziazione, ma  assegna  al
livello di governo piu' vicino al cittadino la responsabilita'  della
gestione delle risorse. 
    Infine,  incredibile  dictu,  la  necessita'  di  rispettare   il
principio di leale cooperazione istituzionale (v.  lett.  c)  non  e'
stata minimamente avvertita dal Governo. 
    3.12 Si e' gia' spiegato quali effetti materiali si  ricolleghino
al ritorno al sistema della tesoreria unica per  la  Regione  (e  gli
enti locali) imposto dal decreto-legge n. 1/2012. Il riferimento,  in
particolare,  a  tacer  d'altro,  e'  alla  circostanza  che:  i)  il
provvedimento sottrae alle Regioni la libera gestione (non solo delle
risorse derivanti dai trasferimenti statali, ma anche) delle  risorse
proprie; ii) diminuisce il rendimento di queste ultime in termini  di
interessi;  iii)   si   insinua   unilateralmente   e   con   effetti
sostanzialmente caducatori su un rapporto contrattuale legittimamente
in corso tra le parti in esecuzione di  norme  imperative  rispettose
della potesta' legislativa concorrente tra Stato e Regioni; iv) esige
la «smobilizzazione» degli «eventuali investimenti  finanziari»  (tra
l'altro da individuarsi con futuro decreto ministeriale). 
    E' evidente che quella predisposta dal legislatore statale e' una
macroscopica e maldestra forma di «espropriazione»  della  proprieta'
in capo alle Regioni e  agli  enti  locali  (per  non  parlare  degli
istituti di credito), in contrasto con  l'art.  42  Cost.,  aggravata
dall'assenza, nel  caso  di  specie,  di  una  effettiva  ragione  di
interesse generale che possa legittimare l'intervento de quo. 
    3.13  Come  si  e'  visto,  quindi,  le  disposizioni   censurate
comportano una diminuzione  delle  entrate  previste  e  inserite  in
bilancio (certa almeno con riferimento  a  quelle  provenienti  dalla
differenza con gli interessi sulle  somme  depositate  garantiti  dai
tesorieri decentrati). Esse agiscono, pero', anche sul versante della
spesa dal momento che il materiale e completo ritorno al  sistema  di
tesoreria unica non  potra'  avvenire  senza  costi,  in  termini  di
risorse umane e finanziarie. 
    Gia'  nel  1984,  infatti,  la  dottrina  aveva  evidenziato  che
l'innovazione della tesoreria unica comportava maggiori costi, «forse
comprimibili ma non certo eliminabili»,  collegati:  al  venire  meno
della  «gratuita'  delle  prestazioni»  fornite  dagli  istituti   di
credito; alla minore correntezza nella provvista dei fondi  da  parte
degli enti, con  una  probabile  accentuazione  della  necessita'  di
ricorrere ad anticipazioni di cassa; a  appesantimenti  di  carattere
contabile   e   macchinosita'   procedurali;   alle   operazioni   di
ristrutturazione degli uffici di tesoreria dello  Stato  al  fine  di
renderli idonei alle nuove, antiche funzioni (31) . 
    La legge, dunque, importa nuove e maggiori spese, contestualmente
decurtando le entrate e, quel che qui conta, senza indicare  i  mezzi
per farvi fronte, con cio' ponendosi in patente violazione  dell'art.
81 Cost. 
    3.14 E' evidente che,  ancora  una  volta,  «alle  origini  della
vicenda medesima sta il modo scomposto e disordinato con il quale  lo
Stato si muove nei rapporti con le Regioni anche in un settore  molto
delicato quale  quello  del  coordinamento  finanziario»  (32)  .  La
Pretesa e'  quella  di  imporre  unilateralmente,  con  discipline  a
carattere derogatorio e suppostamente  straordinario,  il  sacrificio
delle autonomie per far  fronte  alle  esigenze  di  cassa  (divenute
invece ordinarie), senza aver messo mai davvero mano alle  cause  dei
problemi. 
    «Non v'ha  dubbio  che  il  susseguirsi,  di  anno  in  anno,  di
provvedimenti a carattere  contingente,  in  deroga  alla  disciplina
ordinaria,  renda  quantomai  disorganico  e  provvisorio  il  quadro
attuale della finanza regionale» (v. Corte cost., cent.  n.  307  del
1983). E quando cio' che era e doveva essere provvisorio si ripropone
con  pervicace  frequenza,  la  provvisorieta'  diventa  tendenza   e
l'effetto e' quello di alterare in via permanente l'equilibrio  delle
autonomie, disegnato e tutelato, anzitutto, dall'art. 5 Cost., non  a
caso  inserito  tra  i  Principi  fondamentali,  e  dalle   succitate
disposizioni del Titolo V. 
    Il monito, in definitiva, e' quello che Calamandrei fece  proprio
durante il suo discorso all'Assemblea costituente  pronunciato  il  4
marzo 1947: «Noi dobbiamo volere  che  questa  Costituzione  sia  una
Costituzione seria, e  che  sia  presa  sul  serio  dagli  italiani»:
«bisogna evitare che  nel  leggere  questa  nostra  Costituzione  gli
italiani dicano anch'essi: "Non e' vero nulla"»! 
    Alla luce di quanto  esposto,  si  chiede,  dunque,  che  codesta
Ecc.ma  Corte  voglia  dichiarare   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 35, comma 8, 9, 10 e 13, del decreto-legge 24 gennaio 2012,
n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012,
n. 27 per violazione degli artt. 3, 5, 41, 42, 81, 97, 117, 118, 119,
120 Cost.  nonche'  del  principio  di  leale  collaborazione  e  dei
principi di cui all'art. 2, comma 2, lett. b), c), p), dd), ii), ll),
della legge n. 42 del 2009, quale parametri interposti. 
    4. Sull'illegittimita' costituzionale in parte qua dell'art.  36,
comma 1, lett. a), del decreto-legge n. 1/2012, cosi' come risultante
a seguito della conversione in legge n. 27/2012. 
    L'articolo 36, nel testo originario del decreto, prevedeva che il
Governo avrebbe dovuto presentare,  entro  tre  mesi  dalla  data  di
entrata in vigore della legge di conversione,  un  disegno  di  legge
istitutivo di un'Autorita' indipendente di regolazione dei  trasporti
e che, in attesa di detta istituzione, le  funzioni  regolatorie  del
settore fossero svolte dall'Autorita' per l'energia elettrica  ed  il
gas. 
    A seguito delle modifiche operate con la  conversione  in  legge,
invece, oggi, l'art. 36 istituisce detta Autorita' di regolazione dei
trasporti e ne disciplina natura (di organo collegiale indipendente),
composizione  (nelle  persone  di  un  presidente  e  due  componenti
nominati secondo le procedure di cui all'art. 2, comma 7, della legge
n. 481/1997) e funzioni.  In  particolare  essa  e'  «competente  nel
settore di trasporti e dell'accesso alle relative infrastrutture e ai
servizi accessori, in conformita' con la  disciplina  europea  e  nel
rispetto del principio di sussidiarieta'  e  delle  competenze  delle
regioni e degli enti locali di cui al titolo V  della  parte  seconda
della Costituzione». 
    E' evidente, tuttavia, che una  tale  previsione  si  risolve  in
niente piu' che in una petizione  di  principio  la  quale  non  puo'
bastare a ritenere la disciplina statale conforme  al  riparto  delle
competenze  tra  autonomie  territoriali  titolari  di  una   qualche
competenza costituzionalmente sancita nell'ambito  della  materia  in
cui l'Autorita' viene ad acquisire funzione regolatoria.  Non  basta,
in particolare, secondo la Regione ricorrente, con  riferimento  alle
previsioni, contenute nell'impugnato art. 36, comma 1, lett. a),  per
cui: 
        i) spetta all'Autorita' definire, nell'ambito dei servizi  di
trasporto locale, «i criteri per la fissazione da parte dei  soggetti
competenti delle tariffe, dei  canoni,  dei  pedaggi,  tenendo  conto
dell'esigenza di  assicurare  l'equilibrio  economico  delle  imprese
regolate, l'efficienza produttiva delle gestioni  e  il  contenimento
dei costi per gli utenti, le imprese, i consumatori» (art. 37,  comma
2, lett. b) del decreto-legge n. 201/2011, cosi' come modificato)  e,
con particolare riferimento al settore autostradale,  «stabilire  per
le nuove concessioni sistemi tariffari di pedaggi basati  sul  metodo
del price cap» (art. 37, comma  2,  lett.  g)  del  decreto-legge  n.
201/2011); 
        ii)  «definire  gli  schemi  dei   bandi   delle   gare   per
l'assegnazione  di  servizi  di  trasporto  in  esclusiva   e   delle
convenzioni da inserire nei capitolati delle medesime gare» (art. 37,
comma 2, lett. f) del decreto-legge n. 201/2011) e,  ugualmente,  per
il settore autostradale,  «definire  gli  schemi  di  concessione  da
inserire nei bandi di gara relativi alla gestione  o  costruzione;  a
definire gli schemi dei bandi relativi alle gare cui  sono  tenuti  i
concessionari autostradali per le nuove concessioni» (art. 37,  comma
2, lett. g) del decreto-legge n. 201/2011); 
        iii) «stabilire i criteri per  la  nomina  delle  commissioni
aggiudicatrici» (art. 37, comma 2,  lett.  f)  del  decreto-legge  n.
201/2011). 
    Prima  di  procedere  con  l'illustrazione   delle   censure   di
legittimita' costituzionale per ciascuno  di  questi  tre  gruppi  di
discipline, e' necessario individuare l'ambito materiale di afferenza
delle  previsioni  normative  qui  in  analisi  rispetto  al  dettato
dell'art. 117 Cost. 
    A tal fine deve, anzitutto, richiamarsi la materia del  trasporto
pubblico locale, certamente rientrante nell'ambito delle  «competenze
residuali delle Regioni di cui al quarto comma dell'art.  117  Cost.,
come reso evidente anche dal fatto che, ancor prima della riforma del
Titolo V della Costituzione, il decreto legislativo 19 novembre 1997,
n. 422 (...) aveva ridisciplinato l'intero settore,  conferendo  alle
Regioni e agli enti locali funzioni e  compiti  relativi  a  tutti  i
"servizi pubblici di trasporto di interesse regionale e  locale"  con
qualsiasi modalita' effettuati ed  in  qualsiasi  forma  affidati  ed
escludendo solo i trasporti pubblici di interesse  nazionale»  (cosi'
in Corte cost. sent. n. 222 del 2005). 
    Normalmente,  tuttavia,  la  Corte  riconduce  questo  genere  di
disposti, nell'ambito prevalente - e, per certi versi, travolgente  -
della «tutela della concorrenza», di cui all'art. 117, comma 2, lett.
e), Cost. 
    Non   si   intende,   infatti,   ignorare    la    giurisprudenza
costituzionale ormai consolidata che tende  a  sussumere  nell'ambito
della «tutela della concorrenza» interventi  legislativi  di  portata
simile a quelli  oggi  oggetto  di  impugnazione,  pur  se  incidenti
profondamente nell'ambito dei trasporti o dei servizi pubblici locali
(cfr. ex plurimis, Corte cost. sent. n. 272  del  2004;  Corte  cost.
sent. n. 325 del 2010). 
    Tuttavia, proprio perche' la  tutela  della  concorrenza  e'  una
cosiddetta  materia-funzione,  riservata  alla  competenza  esclusiva
dello Stato, la quale non ha un'estensione rigorosamente circoscritta
e determinata, ma, e', per cosi' dire, «trasversale»  (cfr.  sentenza
n. 407 del 2002) e si intreccia inestricabilmente con una  pluralita'
di altri interessi - alcuni  dei  quali  rientranti  nella  sfera  di
competenza concorrente o residuale  delle  Regioni  -  connessi  allo
sviluppo economico-produttivo del Paese, «e' evidente  la  necessita'
di basarsi sul criterio di  proporzionalita-adeguatezza  al  fine  di
valutare, nelle diverse  ipotesi,  se  la  tutela  della  concorrenza
legittimi o meno  determinati  interventi  legislativi  dello  Stato»
(cfr. Corte cost. 27 luglio 2004, n. 272). 
    4.1  Ora,  l'attribuzione  all'Autorita'   di   regolazione   dei
trasporti del potere di fissare i criteri delle tariffe, da un  lato,
e  l'assegnazione  alla  neo  istituita  Autorita'  indipendente   di
competenze specifiche sugli schemi di bandi di gara e sugli schemi di
concessione, sono disposizioni che: i) in primo luogo, non  risultano
proporzionate alle esigenze da soddisfare, ossia quelle  di  apertura
alla concorrenza e potenziamento dei  servizi,  dal  momento  che  si
limitano a demandare ad un soggetto - per altro estraneo della logica
della  responsabilita'  politica  e  amministrativo-contabile  -   la
determinazione di discipline  di  impatto  macroeconomico  rilevante,
senza neppure offrire seri  vincoli  e/o  parametri  di  indirizzo  e
controllo; ii) in secundis, non rispondono ad esigenze unitarie  tali
da imporre di ignorare gli enti territoriali che,  sul  punto,  anche
rispetto  al  principio  di   sussidiarieta',   differenziazione   ed
adeguatezza  ben  potrebbero  aver  un  contributo  significativo  da
apportare. Di qui anche la lesione dei  rammentati  principi  sanciti
all'art. 118 Cost. 
    Nella denegata ipotesi in cui, poi,  le  specifiche  attribuzioni
all'Autorita' qui censurate fossero  ritenute  legittima  espressione
dell'esercizio,  da  parte  dello  Stato,  dalla   propria   potesta'
esclusiva, stante il concorso sul punto di  molte  altre,  importanti
competenze legislative regionali, esclusive e  concorrenti,  dovrebbe
ritenersi  necessaria  la  previsione  di  una   qualche   forma   di
coinvolgimento delle  Regioni,  qui,  invece,  assente.  In  cio'  si
realizza la violazione del principio di leale collaborazione. 
    Infine,  con  precipuo   riferimento,   alla   competenza   della
neo-istituita Autorita' circa la determinazione dei  criteri  per  la
fissazione delle tariffe, nella parte e nella misura  in  cui  queste
concorrono  a  costituire   risorse   proprie   della   Regione,   la
disposizione impugnata si segnala anche perche' lesiva dell'autonomia
finanziaria di cui all'art. 119 Cost. 
    4.2 Infine, qualche considerazione deve  svolgersi  relativamente
all'illegittimita'  costituzionale  della  disposizione  che  rimette
all'Autorita' de qua il potere di stabilire i criteri per  la  nomina
delle commissioni giudicatrici. 
    Tale disciplina e' costituzionalmente illegittima per  violazione
degli artt. 117 e 118 Cost., in quanto non si rileva  l'esistenza  di
esigenze unitarie tali da sottrarre l'individuazione  dei  commissari
(con riferimento  al  numero,  alla  qualifica  del  presidente,  dei
commissari, nonche' alle modalita'  della  loro  scelta)  dall'ambito
organizzativo delle singole stazioni  appaltanti,  che  ben  potranno
modularli tenendo conto della complessita' dell'oggetto  della  gara,
nonche' dell'importo della medesima. 
    L'illegittimita' costituzionale della richiamata disposizione  e'
resa palese da un precedente di codesta Ecc.ma Corte proprio in punto
di  commissione  di  gara,  in  allora  disciplinata  dal  Codice  di
contratti (art. 84),  secondo  cui  «non  e'  condivisibile  la  tesi
secondo cui la normativa delegata - attinente  alla  composizione  ed
alle  modalita'  di   scelta   dei   componenti   della   Commissione
giudicatrice - troverebbe  fondamento  nella  competenza  legislativa
esclusiva dello Stato in materia di tutela  della  concorrenza.  Essa
presuppone, infatti, che tali norme abbiano ad oggetto specificamente
i criteri e le modalita' di scelta del contraente, idonei ad incidere
sulla partecipazione dei  concorrenti  alle  gare  e,  dunque,  sulla
concorrenzialita' nel mercato,  nel  senso  che  dai  diversi  moduli
procedimentali  utilizzati  potrebbero  derivare  conseguenze   sulla
minore o maggiore possibilita' di accesso delle  imprese  al  mercato
medesimo, e  sulla  parita'  di  trattamento  che  deve  essere  loro
riservata». La sentenza citata prosegue, poi, chiarendo che «la norma
in esame, invece - pur disciplinando aspetti della  stessa  procedura
di scelta - e' preordinata ad altri fini e deve seguire  il  generale
regime giuridico che e' loro proprio, senza  che  possano  venire  in
rilievo le esigenze di salvaguardia della competitivita' nel mercato,
le quali giustificano, in  base  a  quanto  disposto  dall'art.  117,
secondo  comma,  lettera   e),   della   Costituzione,   l'intervento
legislativo  dello  Stato.  Orbene,   gli   aspetti   connessi   alla
composizione della  Commissione  giudicatrice  e  alle  modalita'  di
scelta dei  suoi  componenti  attengono,  piu'  specificamente,  alla
organizzazione amministrativa degli organismi  cui  sia  affidato  il
compito  di  procedere  alla  verifica  del  possesso  dei  necessari
requisiti, da parte della imprese concorrenti,  per  aggiudicarsi  la
gara. Da cio' deriva  che  non  puo'  essere  esclusa  la  competenza
legislativa regionale nella disciplina di  tali  aspetti»  (cosi'  in
Corte cost. sent. n. 401 del 2007). 
    Alla luce di quanto  esposto,  si  chiede,  dunque,  che  codesta
Ecc.ma Corte voglia  dichiarare  l'illegittimita'  costituzionale  in
parte qua dell'art. 36, comma  1,  lett.  a),  del  decreto-legge  24
gennaio 2012, n. 1, cosi' come risultante dalla conversione in  legge
24 marzo 2012, n. 27  per  violazione  degli  artt.  117,  118,  119,
nonche' del principio di leale collaborazione. 
    5. Sull'illegittimita' costituzionale dell'art. 66, comma 9,  del
decreto-legge n.  1/2012,  cosi'  come  risultante  a  seguito  della
conversione in legge n. 27/2012. 
    L'art. 66 contiene una serie complessa di disposizioni  normative
in tema di dismissioni di terreni demaniali agricoli  e  a  vocazione
agricola. 
    In particolare, il  comma  7  prevede  che  Regioni,  Province  e
Comuni, anche su richiesta di soggetti interessati, possano vendere o
cedere in locazione beni agricoli o a destinazione agricola  di  loro
proprieta'. A  tal  fine,  essi  possono  conferire  all'Agenzia  del
territorio mandato irrevocabile; quest'ultima dovra', poi, trasferire
agli enti  i  proventi  raccolti  al  netto  dei  costi  sostenuti  e
documentati. 
    Il comma 9, oggetto di impugnazione del presente ricorso, dispone
dell'utilizzabilita' delle  risorse  derivanti  dalle  operazioni  di
dismissione: esse, sempre al netto dei costi di dismissione, dovranno
essere destinate dagli enti territoriali alla  riduzione  del  debito
pubblico e, in assenza  del  debito  o  per  la  parte  eventualmente
eccedente, al Fondo per l'ammortamento dei titoli di Stato. 
    Questo  il  testo  della  disposizione  impugnata:  «Le   risorse
derivanti dalle operazioni di dismissione di cui ai commi  precedenti
al  netto  dei  costi  sostenuti  dall'Agenzia  del  demanio  per  le
attivita' svolte, sono destinate alla riduzione del debito  pubblico.
Gli enti territoriali destinano le predette  risorse  alla  riduzione
del  proprio  debito  e,  in  assenza  del  debito  o  per  la  parte
eventualmente eccedente al Fondo per  l'ammortamento  dei  titoli  di
Stato». 
    L'ambito materiale di afferenza della disposizione  impugnata  e'
quello del «coordinamento della finanza pubblica»,  di  cui  all'art.
117, comma 3, Cost. 
    E' superfluo ricordare che si tratta di un  ambito  materiale  di
competenza legislativa concorrente, in  relazione  al  quale  «spetta
alle Regioni la potesta' legislativa, salvo che per la determinazione
dei principi fondamentali, riservata alla legislazione  dello  Stato»
(art. 117, comma 3, Cost. e art. 2, comma 2, lett. n, della legge  n.
42/2009, che impone il «rispetto della ripartizione delle  competenze
legislative fra Stato  e  Regioni  in  tema  di  coordinamento  della
finanza pubblica e del sistema tributario»). 
    Quando lo Stato si avvale della propria competenza legislativa  a
dettare  principi  fondamentali  di   coordinamento   della   finanza
pubblica, l'apprezzamento  della  legittimita'  costituzionale  della
disposizione  impugnata  comporta  sempre  «la  verifica   che,   nel
perseguire siffatta  finalita',  il  legislatore  statale  non  abbia
prodotto norme di dettaglio» (v. Corte cost., sent. n. 40 del 2010). 
    La disposizione impugnata non si limita a porre  principi,  ossia
«criteri ed  obiettivi»  che  lascino  alle  Regioni  un  sufficiente
«spazio di manovra» nella «individuazione degli strumenti concreti da
utilizzare per raggiungere detti obiettivi» (cosi'  in  Corte  cost.,
sentt. n. 340 del 2009, n. 237 e n. 200 del 2009, n. 401  del  2007),
ma  interviene  con  previsioni  specifiche  e  autoapplicative   che
incidono  sull'autonomia  di  spesa  della  Regione,  imponendo   una
specifica destinazione per le somme reperite  per  il  tramite  delle
operazioni di dismissione. 
    Sotto questo profilo, e'  evidente,  dunque,  che  la  denunciata
lesione dell'art. 117  Cost.  si  riverbera  anche  in  un  rilevante
contrasto con l'autonomia di spesa sancita e  tutelata  all'art.  119
Cost. e con legge 5 maggio 2009, n. 42, che del  menzionato  disposto
costituzionale fa applicazione (il riferimento, in  particolare,  e':
all'art. 1, comma 1; all'art.  2,  comma  2,  lett.  a)).  Lo  Stato,
infatti, avrebbe dovuto, caso mai, limitarsi ad indicare  l'obiettivo
della  riduzione  del  debito,  mai  potendo  giungere  alla  precisa
individuazione dello strumento necessario - a suo dire - per ottenere
il risultato sperato. 
    Si consideri, poi, che se il provento della dismissione  di  beni
divenuti propri deve essere utilizzato secondo le  indicazioni  dello
Stato e, addirittura, in caso  di  assenza  di  debito  regionale  da
ridurre, per incrementare il Fondo per l'ammortamento dei  titoli  di
Stato, e' come se i beni dimessi non  fossero  mai  appartenuti  alla
Regione: si realizza cosi una lesione della  proprieta'  pubblica  di
cui all'art. 42 e 119, comma 6, Cost. 
    Quest'ultima disposizione e' stata poi attuata con legge 5 maggio
2009, n. 42, in particolare all'art. 19, relativo al patrimonio degli
enti   territoriali.   I   principi   ivi   contenuti   sono    stati
successivamente oggetto  di  un  ulteriore  intervento  normativo  di
attuazione, per mezzo del decreto legislativo 28 maggio 2010, n. 85. 
    Proprio con riferimento  al  provvedimento  normativo  da  ultimo
citato, meglio noto come decreto sul c.d. federalismo demaniale, deve
rilevarsi un diverso profilo di illegittimita' costituzionale. L'art.
2, comma 4, del d.lgs. n. 85/2010,  infatti,  stabilisce  che  l'ente
territoriale  che  riceva  beni  nell'interesse  della  collettivita'
rappresentata  e'  tenuto  a  favorirne  la  massima   valorizzazione
funzionale  «a  vantaggio  diretto   o   indiretto   della   medesima
collettivita' territoriale rappresentata». Ora, la previsione di  cui
all'art. 66, comma 9,  nella  parte  in  cui  consente-impone  che  i
proventi della dismissione siano utilizzati per coprire il  Fondo  di
ammortamento  dei  titoli  di  Stato,  sottrae   alle   collettivita'
territoriali presso le quali si trova il  bene  le  risorse  ottenute
proprio  valorizzando   quest'ultimo   e,   per   cio'   stesso,   e'
incostituzionale. 
    I profili di illegittimita' rilevati in riferimento alla  lesione
dell'autonomia  normativa  e  finanziaria  regionale  si  riverberano
inevitabilmente  in  una  compromissione  della  stessa  potesta'  di
esercizio autonomo delle funzioni amministrative, con cio'  rivelando
la lesivita' della disposizione impugnata rispetto all'art. 118 Cost. 
    Stupisce, infine, che in un ambito di competenza concorrente, nel
quale in gioco vi e' la valorizzazione  di  beni  propri  degli  enti
territoriali e la destinazione delle risorse da questi derivanti, una
disposizione di tal fatta non sia stata fatta oggetto di un confronto
con le Regioni o che non sia quanto meno previsto  che  esse  debbano
essere consultate in sede  di  deliberazione  dei  proventi  raccolti
dalle dismissioni. In cio' si sostanzia la lesione del  principio  di
leale collaborazione. 
    Alla luce di quanto  esposto,  si  chiede,  dunque,  che  codesta
Ecc.ma  Corte  voglia  dichiarare   l'illegittimita'   costituzionale
dell'art. 66, comma 9, del decreto-legge 24 gennaio 2012, n. 1, cosi'
come risultante dalla conversione in legge 24 marzo 2012, n.  27  per
violazione degli artt. 117, 118, 119 Cost., nonche' del principio  di
leale collaborazione e dei principi di cui agli artt. 1, comma 1;  2,
comma 2, lett. a), 19 della legge n. 42/2009, nonche'  del  principio
di cui all'art. 2, comma 4, del d.lgs. n.  85/2010,  quali  parametri
interposti. 
 
Sulla  legittimazione  della  Regione  a  far  valere  lesioni  delle
            attribuzioni costituzionali degli enti locali 
 
    La Regione si rivolge  a  codesta  Ecc.ma  Corte  per  denunciare
l'illegittimita' delle disposizioni normative impugnate non solo  per
violazione  della  propria  autonomia  costituzionalmente  garantita,
bensi' anche denunciando la lesione  delle  attribuzioni  degli  enti
locali,  pure  gravementi  danneggiati  dal  recente  intervento  del
legislatore statale. 
    La legittimazione della Regione a un tal  tipo  di  denuncia  non
puo' essere revocata in dubbio: come chiarito  da  codesto  Collegio,
essa   sussiste    in    capo    all'ente    regionale    addirittura
indipendentemente  dalla  prospettazione   della   violazione   della
competenza legislativa regionale, in quanto «la stretta  connessione,
in particolare (...) in tema  di  finanza  regionale  e  locale,  tra
attribuzioni regionali e quelle delle autonomie  locali  consente  di
ritenere che la lesione delle competenze  locali  sia  potenzialmente
idonea a determinare una  vulnerazione  delle  competenze  regionali»
(cosi' Corte cost., sent. n. 298 del  2009,  richiamando  i  seguenti
precedenti: sentenze n. 169 e n. 95 del 2007, n. 417 del  2005  e  n.
196 del 2004). 
    E cio' senza considerare  un  dato  normativo  essenziale,  ossia
quello di cui all'art. 9 della legge  La  Loggia  (n.  131/2003),  il
quale da' modo agli enti stessi di chiedere alla Regione di attivarsi
a loro difesa. 
 
                          Istanza cautelare 
 
    Con l'odierno ricorso, questo patrocinio rivolge a codesta Ecc.ma
Corte la richiesta  di  un  intervento  cautelare  che,  pendente  il
giudizio di  legittimita',  sospenda  l'esecuzione  di  alcune  delle
disposizioni normative impugnate. Si tratta, nella specie,  dell'art.
35, comma 8, 9, 10 e 13. 
    Con  riferimento   al   fumus   boni   juris,   presupposto   che
evidentemente deve sostenere un tal genere di domanda, si confida  di
aver gia' sufficientemente argomentato nella parte in diritto. 
    Quel che e' necessario, ora, e' che si evidenzi  la  presenza  di
quel «rischio di un irreparabile pregiudizio all'interesse pubblico o
all'ordinamento giuridico della Repubblica»  e  del  «rischio  di  un
pregiudizio grave ed irreparabile per i diritti dei cittadini»,  che,
ai sensi dell'art. 35 della legge  costituzionale  n.  87  del  1953,
legittimano l'assunzione di provvedimenti cautelari e l'anticipazione
dell'esame e della discussione  in  contraddittorio  della  questione
sottoposta al sindacato di legittimita'. 
    La disciplina normativa  contenuta  nei  commi  8,  9,  10  e  13
dell'art. 35 del decreto-legge n. 1/2012 era gia' stata fatta oggetto
di istanza cautelare contestualmente alla presentazione  del  ricorso
avverso detto provvedimento  normativo.  La  domanda  di  sospensione
degli effetti della summenzionata disciplina viene ripresentata  oggi
che ad essere impugnata e'  il  prodotto  della  sua  conversione  in
legge. 
    Da un lato, infatti, i citati disposti  prevedono  una  serie  di
adempimenti, finalizzati a ritornare al sistema di tesoreria unica, a
scadenze serrate e ravvicinatissime, molte  delle  quali,  purtroppo,
gia' venute a scadenza. Pendente rimane, tuttavia, il termine del  30
giugno p.v. fissato per lo smobilizzo  degli  eventuali  investimenti
finanziari degli enti  territoriali  individuati  con  decreto  dello
scorso 27 aprile. E' evidente, dunque, che  se  si  attenderanno  gli
ordinari  tempi  del  giudizio  di  legittimita'  costituzionale,  la
pronuncia interverra' quando  il  ritorno  al  sistema  di  tesoreria
vigente prima del 1997 sara' ormai gia' compiuto  e  l'illegittimita'
che ad esso  si  associa  avra'  gia'  prodotto  danni  difficili  da
calcolare a priori, ma certamente gravissimi e irreparabili. 
    Tali danni avranno - o, per meglio  dire,  dopo  il  29  febbraio
scorso, hanno - a riguardo: a)  le  autonomie,  locali  e  regionali,
gravemente lese sotto i diversi profili gia' denunciati; b) i diritti
dei cittadini, nella duplice veste di  contribuenti  (per  lo  spreco
delle gia' scarse risorse finanziarie che si associa alla  previsione
impugnata)  e  di  utenti-fruitori  delle  forniture  e  dei  servizi
pubblici (la cui continuita' e' seriamente messa  a  repentaglio  dal
passaggio, mal governato, delle ricchezze da un sistema consolidato e
che aveva dato buona prova  di  se'  ad  uno  oramai  superato  sotto
molteplici profili e della cui adeguatezza e' dato  dubitare;  c)  le
imprese, che gia' soffrono degli incredibili  ritardi  nei  pagamenti
della pubblica amministrazione e che vedranno diminuire ulteriormente
le proprie possibilita' di accesso al credito  delle  banche  per  le
ragioni gia' spiegate; d) last but not least, le banche stesse o, per
meglio dire, il sistema bancario. 

(1) S. Trentin, La crisi del Diritto e dello  Stato,  prima  edizione
    italiana, a cura di G.  Gangemi,  Gangemi  Editore,  Roma,  2006.
    Questa affermazione rappresenta  il  filo  conduttore  della  sua
    straordinaria opera, definita da F. Geny «esempio di indipendenza
    di pensiero, d'energia morale indomabile, di alta virtu' critica,
    di fedelta', senza compromessi, ne' riserve, al puro  ideale  del
    Diritto» (ivi, 52). 

(2) S. Trentin, La crisi, cit., 198. 

(3) S. Cassese, Lo Stato introvabile. Modernita' e arretratezza delle
    istituzioni italiane, Donzelli, Roma, 1998;  ID.,  L'Italia:  una
    societa' senza Stato?, il Mulino, Bologna, 2011. Se  ne  dovrebbe
    trarre una qualche conclusione, anche alla luce di  quanto  hanno
    scritto, da ultimi, G.  De  Rita  -  A.  Galdo,  L'eclissi  della
    borghesia, Laterza, Bari, 2011, spec. 28. 

(4) S. Trentin, La crisi, cit., 199. 

(5) E' l'assunto  -  un  chiodo  fisso  -  di  chi  aveva  una  certa
    dimestichezza con le istituzioni. Il rilievo sta in  L.  Einaudi,
    Il buongoverno, Laterza, Bari, 2004, 85, il quale  aveva  notato,
    poco prima, che «la "dottrina" e' stata  fabbricata  dai  cultori
    del  diritto  pubblico,  i  quali  argomentano  dal  testo  delle
    costituzioni scritte  e  si  accorgono  delle  consuetudini  solo
    quando esse sono codificate in trattati venerandi per l'autorita'
    degli scrittori»: ivi, 80.  Emblematico  quel  che  riferisce,  a
    proposito di Antonio De Viti  De  Marco,  S.  Cassese,  Lo  Stato
    introvabile, cit., 55-56. Tutto cio', per  sottolineare  come  la
    questione di legittimita' costituzionale qui prospettata  non  si
    presti ad essere risolta a colpi di combinati disposti o di  mere
    riprese di una giurisprudenza che appartiene alla storia: antica. 

(6) A  questo  interrogativo  va  data  una  risposta  di   carattere
    preliminare, onde evitare  l'esito,  perverso  e  fuorviante,  di
    pretendere che l'odierno giudizio di legittimita'  costituzionale
    sia risolto alla luce di una giurisprudenza formatasi si'  su  un
    medesimo testo  normativo,  ma  in  altro,  differente  contesto.
    Dunque, come si chiarira' nel  prosieguo,  quella  giurisprudenza
    non e' riferibile al caso di specie, di cui qui si discute. 

(7) Di questa legge e dei relativi decreti delegati si sono  dette  e
    scritte un'infinita' di  cose.  Se  ne  e'  sempre  trattato  con
    realismo e - si crede - senso di equilibrio, avendo in mente  ben
    radicata una  teoria  dello  Stato,  negli  scritti  comparsi  su
    Federalismo fiscale, anno 2007 e seguenti. 

(8) E' risaputo, in teoria; non lo e', in  pratica.  V.,  quindi,  S.
    Holmes - C.R. Sunstein, Il costo dei diritti. Perche' la liberta'
    dipende dalle tasse, il Mulino, Bologna, 2000, e, di recente,  G.
    Bergonzini, I limiti costituzionali quantitativi dell'imposizione
    fiscale, vol. 1, Jovene, Napoli, 2011, 53 ss., nonche' F.  Gallo,
    Le ragioni del fisco. Etica  e  giustizia  nella  tassazione,  il
    Mulino, Bologna, 2007. 

(9) E' appena il caso di osservare  che  l'istituto  della  tesoreria
    unica fu necessariamente  ricondotto  all'accentramento.  D'altra
    parte, l'attributo  «unica»  e'  compatibile  con  il  «plurale»?
    Talvolta, anche l'osservazione banale e' rivelatrice,  magari  di
    cio' che il ragionamento alla don  Ferrante  nasconde.  O  prova,
    senza successo, a nascondere. 

(10) M. Bertolissi, Contribuenti e parassiti in una societa'  civile,
     Jovene, Napoli, 2012. 

(11) Ineccepibile per chi conosce la crisi del 2008: la sua genesi  e
     i relativi sviluppi. V., ad es., A.R. Sorkin, Too Big  To  Fail,
     trad.  it.,  Istituto  geografico  De  Agostini,  Novara,  2010,
     nonche'  A.  Roncaglia,  Economisti  che  sbagliano.  Le  radici
     culturali della  crisi,  Laterza,  Bari,  2010;  J.E.  Stiglitz,
     Bancarotta.  L'economia  globale  in  caduta  libera,   Einaudi,
     Torino, 2010; G. Rossi, Capitalismo opaco, Laterza, Bari, 2005. 

(12) M.  Longo,  Europa  e  Stati  Uniti,  la  grande   sfida   della
     super-liquidita', in Il Sole 24 Ore, 4 marzo 2012. Si tratta  di
     considerazioni discusse quotidianamente: v.,  sempre  nei  tempi
     piu' recenti, ad es., D. Masciandaro, Gli errori  inglesi  e  la
     via italiana, ivi, 28 febbraio 2012; A. Orioli, Primo passo  per
     crescere. Ora tocca ai debiti  dello  Stato,  ivi,  29  febbraio
     2012; B. Quintieri, Dalle banche piu'  risorse  a  chi  esporta,
     ivi, 4 marzo 2012. 

(13) V., ad es., D. Di Vico, «Le  banche  non  lavorano  gratis»,  in
     Corriere della Sera, 4 marzo 2012, e M. Mucchetti,  La  Bce,  le
     banche e la nuova demagogia, ivi. 

(14) Ecco perche' oggi firmiamo  l'avviso  comune  (di  A.  Azzi,  G.
     Mussari, C. Fratta Pasini, A. Patuelli e C. Venesio), in Il Sole
     24 Ore, 28 febbraio 2012. V., inoltre, G. Gentili, Senza credito
     non c'e' ripresa, in Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012. 

(15) G. Muraro, Tesoriere. La protesta e' fondata, in il  mattino  di
     Padova, 2 marzo 2012. 

(16) G. Trovati, Tesoreria unica, versamenti bloccati, in Il Sole  24
     Ore, 29 febbraio 2012. 

(17) In Il Sole 24 Ore, 2 marzo 2012, 15. 

(18) S. Romano, C'era una volta il  federalismo,  in  Corriere  della
     Sera, 29 febbraio 2012. D'altra parte, v. L. Salvia, Una «cassa»
     centrale per controlli piu' facili, ivi, 28 febbraio 2012. 

(19) F. Gallo, L'autonomia tributaria degli enti locali,  il  Mulino,
     Bologna, 1979, 21, nota 16. In  modo  conforme,  M.  Bertolissi,
     Lineamenti costituzionali del «federalismo fiscale». Prospettive
     comparate, Cedam, Padova, 1982. 

(20) Cfr., rispettivamente,  G.  Spezzaferri,  La  prassi  dei  conti
     correnti presso la Tesoreria centrale in rapporto  all'autonomia
     finanziaria delle Regioni, in Nuova Rass., 1976, p. 38  e  Corte
     cost., sent. n. 155 del 1977. 

(21) Cosi' V. Onida, Autonomia finanziaria e controllo sulla  «cassa»
     delle Regioni, in Le Regioni, 1983, p. 194. 

(22) Cosi' V. Onida, op. ult. cit., p. 192. 

(23) Cosi' G. Spezzaferri, op ult. cit., p. 40, nota 7. 

(24) Cfr.  U.  De  Siervo,  La  Corte  si  impegna  per   l'autonomia
     finanziaria regionale, ma  il  Tesoro  continua  ad  erogare  il
     mensile alle Regioni, in Giur. cost., 1977, p. 1567. 

(25) M. Bertolissi, Le «disponibilita'» finanziarie delle  Regioni...
     non sono disponibili, in Le Regioni, 1981, p. 1087. 

(26) V. Onida, op. cit., p. 198. 

(27) M.  Bertolissi,  Riflessioni   sulla   finanza   delle   Regioni
     ordinarie, in Dir. Reg.,1983, p. 899. 

(28) Cosi' V. Onida, op. cit., pp. 215 e 221. 

(29) Sintetizzato nelle parole di V. Onida, op. it., pp. 220-221. 

(30) Per tutti, V. Onida, Autonomia  finanziaria  e  controllo  sulla
     «cassa» delle Regioni,  in  Le  Regioni,  1983,  192  ss.  e  S.
     Bartole, La Corte (si) difende (dal)la tesoreria  unica  facendo
     appello a precedenti e tests di giudizio, in Le  Regioni,  1986,
     461 ss. 

(31) V.M. Bertolissi, Tesoreria unica  e  finanza  derivata:  appunti
     sulla legge n. 720/1984, in Il dir. della Regione, 1984, 467 ss. 

(32) La citazione e' di S. Bartole, La  Corte  (si)  difende  (dal)la
     tesoreria  unica  facendo  appello  a  precedenti  e  tests   di
     giudizio, in Le Regioni, 1986, 513.